Mauritania, maggio 2011 - Dopo anni di quasi totale disapplicazione della legge contro la schiavitù in Mauritania, Biram Abeid e i suoi compagni dell'IRA (Initiative pour la Résurrection du Mouvement Abolitionniste en Mauritanie) hanno tentato una strada nuova, radicale e dirompente. Ottenendo non pochi risultati...(nella foto, un sit-in di anti-schiavisti davanti al Commissariato di polizia di Arafat - Noukchott)
Nuove strategie di lotta contro la schiavitù
di Nicola Quatrano
Nouakchott, lunedì 2 maggio 2011, ore 11 – Un gruppetto di sette o otto persone, tutti neri, è accampato davanti al Commissariato di Polizia di Arafat, una banlieue di Nouakchott. Il mio arrivo non li inquieta, nonostante sia bianco: qualcuno di loro già mi conosce, sanno di potersi fidare.
Non altrettanto il poliziotto di guardia, che solleva dalle ginocchia il suo vecchio fucile Garand e corre ad avvertire i superiori all’interno del piccolo edificio.
Ma la presenza di un europeo tra i manifestanti è l’unico segno di novità in una scena che sta diventando familiare a Nouakchott, da quando l’IRA (Initiative pour la Résurrection du Mouvement Abolitionniste en Mauritanie) ed il suo leader, Biram Abeid, hanno lanciato una campagna di denuncia di massa di tutti i casi di schiavitù dei quali i circa tremila militanti sparsi nel paese riescono ad avere notizia.
Di fronte alla timidezza, o addirittura al rifiuto di intervenire della polizia e delle autorità, ecco che scattano le iniziative di lotta: sit-in a oltranza davanti agli uffici di polizia (qualcuno è durato anche dieci giorni), scioperi della fame, accerchiamenti simbolici della casa del “maitre”.
Il nuovo caso per il quale questa mattina si fa il sit-in davanti al Commissariato è quello di Lekhewadoum mint Daguly, tenuta in schiavitù, secondo quanto avrebbero accertato i militanti abolizionisti, da tale Emeilmine Edha Sidilemine e da suo fratello Ebah Edha Sidilemine.
I militanti hanno raccolto la denuncia dei vicini della presunta “maitresse” (padrona), secondo i quali Lekhewadoum sarebbe asservita alla padrona, per la quale lavora senza salario e senza altro corrispettivo che non sia il semplice mantenimento di sussistenza.
La “schiava”, dal canto suo, nega la circostanza (fatto per nulla straordinario in casi del genere), ma questo non impedisce ai militanti dell’IRA di reclamare un’inchiesta e l’intervento delle autorità.
Questa volta il sit-in è durato poco, perché il Commissario ha redatto un processo verbale delle dichiarazioni dei protagonisti e dei testimoni, inviando tutto in Procura. La “schiava”, che avrebbe dovuto essere affidata all’IRA, è stata invece consegnata al padre (o a qualcuno che si è dichiarato tale), inaspettatamente intervenuto. L’inchiesta comunque è avviata, e questo sembra soddisfare provvisoriamente i manifestanti, i quali promettono vigilanza: se scopriranno che la schiava tornerà nella casa dei padroni, accerchieranno l’edificio ad oltranza. Se resta col padre, attenderanno l’esito dell’inchiesta.
Non altrettanto il poliziotto di guardia, che solleva dalle ginocchia il suo vecchio fucile Garand e corre ad avvertire i superiori all’interno del piccolo edificio.
Ma la presenza di un europeo tra i manifestanti è l’unico segno di novità in una scena che sta diventando familiare a Nouakchott, da quando l’IRA (Initiative pour la Résurrection du Mouvement Abolitionniste en Mauritanie) ed il suo leader, Biram Abeid, hanno lanciato una campagna di denuncia di massa di tutti i casi di schiavitù dei quali i circa tremila militanti sparsi nel paese riescono ad avere notizia.
Di fronte alla timidezza, o addirittura al rifiuto di intervenire della polizia e delle autorità, ecco che scattano le iniziative di lotta: sit-in a oltranza davanti agli uffici di polizia (qualcuno è durato anche dieci giorni), scioperi della fame, accerchiamenti simbolici della casa del “maitre”.
Il nuovo caso per il quale questa mattina si fa il sit-in davanti al Commissariato è quello di Lekhewadoum mint Daguly, tenuta in schiavitù, secondo quanto avrebbero accertato i militanti abolizionisti, da tale Emeilmine Edha Sidilemine e da suo fratello Ebah Edha Sidilemine.
I militanti hanno raccolto la denuncia dei vicini della presunta “maitresse” (padrona), secondo i quali Lekhewadoum sarebbe asservita alla padrona, per la quale lavora senza salario e senza altro corrispettivo che non sia il semplice mantenimento di sussistenza.
La “schiava”, dal canto suo, nega la circostanza (fatto per nulla straordinario in casi del genere), ma questo non impedisce ai militanti dell’IRA di reclamare un’inchiesta e l’intervento delle autorità.
Questa volta il sit-in è durato poco, perché il Commissario ha redatto un processo verbale delle dichiarazioni dei protagonisti e dei testimoni, inviando tutto in Procura. La “schiava”, che avrebbe dovuto essere affidata all’IRA, è stata invece consegnata al padre (o a qualcuno che si è dichiarato tale), inaspettatamente intervenuto. L’inchiesta comunque è avviata, e questo sembra soddisfare provvisoriamente i manifestanti, i quali promettono vigilanza: se scopriranno che la schiava tornerà nella casa dei padroni, accerchieranno l’edificio ad oltranza. Se resta col padre, attenderanno l’esito dell’inchiesta.
La realtà della schiavitù in Mauritania
La quasi totalità del lavoro domestico a Nouakchott, e del lavoro agricolo nelle campagne, viene svolto da schiavi. Vale a dire viene svolto senza remunerazione da persone legate da complicati rapporti con il “maitre” (padrone). La schiavitù, infatti, in Mauritania è una condizione che si acquista con la nascita: il figlio della schiava, come il vitello, il capretto, i frutti dell’albero, appartiene al padrone, che ne dispone come crede, lo impiega nel lavoro domestico o agricolo, lo sfrutta sessualmente fin da tenerissima età. In un certo qual senso, dunque, esso appartiene alla famiglia del padrone, ma non gode di alcun diritto e non è trattato come gli altri membri della famiglia stessa. Dorme in locali separati, non ha il diritto di sposarsi senza il permesso del padrone, può essere affittato e venduto.
Moltissimi di questi schiavi impiegati nel lavoro domestico sono bambini piccolissimi, anche di cinque-sei anni, ai quali non viene fornita alcuna istruzione. D’altronde l’ignoranza è una condizione essenziale per il mantenimento della schiavitù tra persone alle quali si fa credere che un’antica maledizione ha reso i neri schiavi dei bianchi e che devono accettare tale condizione per guadagnarsi il Paradiso.
Essi sono di solito abusati sessualmente dai padroni fin dall’età di dieci anni.
In Mauritania la schiavitù è stata abolita legalmente solo nel 1981 ed è recentissima (del 2007) la legge che ha sancito severe pene detentive nei confronti degli autori di trattamenti schiavisti. Ma la legge non basta, perché il fenomeno è radicatissimo e l’élite politico-amministrativa mauritana è composta praticamente da soggetti tutti appartenenti a famiglie proprietarie di schiavi. Così la legge del 2007 non ha avuto finora alcuna pratica applicazione. Fino alla tempesta scatenata dall’iniziativa dell’IRA e di Biram Abeid.
La nuova strategia di lottaLa strategia di lotta adottata recentemente dall’IRA costituisce, in un simile contesto, una novità scioccante. Quando i militanti abolizionisti hanno cominciato a denunciare casi concreti di schiavitù, fornendone le prove, pubblicizzandoli e reclamando, con sit-in, scioperi della fame e altre forme di lotta non-violenta, la punizione dei colpevoli, una grande preoccupazione si è diffusa tra le famiglie “maure” che impiegano schiavi nei lavori domestici. Quando poi, sia pure in alcuni rari casi, è accaduto che dei “maitre” fossero arrestati, la preoccupazione è diventata panico e, in pochi giorni, migliaia di bambini “schiavi” sono stati rispediti alle loro famiglie, in attesa di tempi migliori.
Chiedo a Biram Abeid (nella foto) in che cosa consista questa nuova strategia di lotta. Mi risponde partendo la lontano: “Il movimento abolizionista in Mauritania esiste da tempo e si è indubbiamente guadagnato grandi meriti. Ha espresso figure autorevoli, per esempio l’attuale presidente dell’Assemblea Nazionale, Messaoud ould Boulkheir, è stato uno dei fondatori di tale movimento. Anche SOS Esclave, la storica associazione che ha raccolto l’eredità del primo movimento anti-schiavista, ha molto ben operato, ottenendo leggi, come quella del 2007, che criminalizza i comportamenti schiavisti, o quelle, altrettanto importanti, che vietano lo sfruttamento dei minori. Però le leggi non vengono applicate e tutto resta come prima”.
Dunque, chiedo a Biram, cosa fa di nuovo e di diverso l’IRA rispetto alle altre associazioni anti-schiaviste?
“L’IRA – risponde Biram – ha deciso di intervenire sui casi concreti. Fino ad oggi, si è sempre atteso che lo schiavo si ribellasse da solo e si rivolgesse alle associazioni antischiaviste, solo a quel punto gli si offriva assistenza. Però la legge consente che le denunce possano essere presentate anche da associazioni, non solo dai diretti interessati. Così abbiamo deciso di denunciare noi stessi i casi di schiavitù dei quali veniamo a conoscenza, senza aspettare che sia la vittima a decidere di farlo”.
Come riuscite ad avere le informazioni sui casi concreti?
“L’IRA – risponde Biram – conta su circa tremila attivisti in tutto il paese. Sono soprattutto i vicini di casa che vengono a segnalarci i casi. La Mauritania è piccola, ha poco più di due milioni di abitanti: tutti sanno tutto di tutti. Noi facciamo una verifica e poi presentiamo la nostra denuncia. Quindi pretendiamo che le autorità intervengano”.
Ed è stata proprio questa pretesa a condurre Biram ed altri militanti in prigione, nel dicembre 2010. Sei arresti: Biram Dah Abeid, Moouloud ould Bonby, Bala Touré, Cheickh ould Abidine, Aliounne ould M’Bareck Fall e Dah ould Boushab.
Il caso era quello di una ragazza asservita e impiegata per i lavori domestici. “Informati da un vicino di casa – racconta Biram – nella notte del 3 dicembre ci siamo recati dal Prefetto. La mattina successiva la polizia si è recata a casa della donna che avevamo denunciato ed ha effettivamente trovato la ragazza al lavoro. La padrona denunciata, però, è una persona importante, un influente funzionario di banca. Quando ci siamo accorti che la polizia tergiversava, ci siamo recati in Commissariato per protestare, siamo stati aggrediti da alcuni poliziotti che hanno poi denunciato noi per aggressione. Siamo stati arrestati e condannati, il 6 febbraio 2011, a un anno di prigione. Il 15 febbraio siamo stati graziati, nonostante avessimo rifiutato la grazia.
Arrestarci però è stato un passo falso per il potere: è servito solo a dare un grandissimo risalto alla nostra attività. Da allora le informazioni su nuovi casi di schiavitù hanno cominciato ad arrivarci in numero ancora maggiore”.
Ricordiamo che, durante la sua detenzione, Biram ha ricevuto la visita in prigione di Marco Pannella e di una delegazione del Partito Radicale italiano.
Dunque, chiedo a Biram, cosa fa di nuovo e di diverso l’IRA rispetto alle altre associazioni anti-schiaviste?
“L’IRA – risponde Biram – ha deciso di intervenire sui casi concreti. Fino ad oggi, si è sempre atteso che lo schiavo si ribellasse da solo e si rivolgesse alle associazioni antischiaviste, solo a quel punto gli si offriva assistenza. Però la legge consente che le denunce possano essere presentate anche da associazioni, non solo dai diretti interessati. Così abbiamo deciso di denunciare noi stessi i casi di schiavitù dei quali veniamo a conoscenza, senza aspettare che sia la vittima a decidere di farlo”.
Come riuscite ad avere le informazioni sui casi concreti?
“L’IRA – risponde Biram – conta su circa tremila attivisti in tutto il paese. Sono soprattutto i vicini di casa che vengono a segnalarci i casi. La Mauritania è piccola, ha poco più di due milioni di abitanti: tutti sanno tutto di tutti. Noi facciamo una verifica e poi presentiamo la nostra denuncia. Quindi pretendiamo che le autorità intervengano”.
Ed è stata proprio questa pretesa a condurre Biram ed altri militanti in prigione, nel dicembre 2010. Sei arresti: Biram Dah Abeid, Moouloud ould Bonby, Bala Touré, Cheickh ould Abidine, Aliounne ould M’Bareck Fall e Dah ould Boushab.
Il caso era quello di una ragazza asservita e impiegata per i lavori domestici. “Informati da un vicino di casa – racconta Biram – nella notte del 3 dicembre ci siamo recati dal Prefetto. La mattina successiva la polizia si è recata a casa della donna che avevamo denunciato ed ha effettivamente trovato la ragazza al lavoro. La padrona denunciata, però, è una persona importante, un influente funzionario di banca. Quando ci siamo accorti che la polizia tergiversava, ci siamo recati in Commissariato per protestare, siamo stati aggrediti da alcuni poliziotti che hanno poi denunciato noi per aggressione. Siamo stati arrestati e condannati, il 6 febbraio 2011, a un anno di prigione. Il 15 febbraio siamo stati graziati, nonostante avessimo rifiutato la grazia.
Arrestarci però è stato un passo falso per il potere: è servito solo a dare un grandissimo risalto alla nostra attività. Da allora le informazioni su nuovi casi di schiavitù hanno cominciato ad arrivarci in numero ancora maggiore”.
Ricordiamo che, durante la sua detenzione, Biram ha ricevuto la visita in prigione di Marco Pannella e di una delegazione del Partito Radicale italiano.
Si può salvare qualcuno contro la propria volontà?Dico a Biram che molti criticano la radicalità di questa nuova strategia, e non solo con critiche interessate. Nel corso dei miei incontri, ho parlato anche con Rabii ould Idoumou, il giovanissimo leader del Movimento del 25 febbraio, quello che in Mauritania sta cercando di fare “come in Tunisia e in Egitto”. Ebbene Rabii mi ha detto che l’iniziativa dell’IRA è troppo dirompente e rischia di compattare il fronte degli avversari, mentre invece bisognerebbe approfittare delle loro contraddizioni interne.
Altre critiche hanno invece un carattere molto più evidentemente interessato. In calce a questo articolo riportiamo due articoli che contengono appunto questo punto di vista. Personalmente, condivido la valutazione di Biram che si tratta di un riposizionamento del fronte degli avversari: quegli stessi che fino a qualche anno fa negavano addirittura l’esistenza della schiavitù in Mauritania oggi sono costretti ad ammetterla, ma criticano Biram sostenendo che la sua iniziativa sconvolge un equilibrio socio-economico, con danno maggiore proprio per quegli schiavi che si vorrebbero salvare e che vengono invece privati anche della sola sussistenza che i padroni comunque assicurano loro.
La mia domanda a Biram è un’altra: “Si può salvare qualcuno contro la propria volontà?”
“Se non si ribellano è perché sono ignoranti e credono che accettare la volontà del padrone serva a guadagnare loro il paradiso. Ma basta che stiano anche un solo giorno con noi perché scelgano la libertà. D’altra parte – aggiunge – è la legge che vieta la schiavitù e la legge deve essere applicata anche contro la volontà dei diretti interessati”.
Devo riconoscere che mi procura un qualche disagio l’idea che le accuse (o forse le chiacchiere) di un qualche vicino bastino all’IRA per reclamare l’arresto del sospettato, attraverso l’organizzazione di sit-in, scioperi della fame ed altre forme di pressione. Lo dico a Biram, manifestandogli la preoccupazione che simili accuse possano nascondere rancori, gelosie, regolamenti di conti.
Biram sorride e mi ricorda che la Mauritania non è l’Europa, “qui c’è poca gente, tutti si conoscono, tutti conoscono gli schiavi e tutti conoscono i padroni…”.
La risposta non mi convince per niente, mi allarma l’idea che una condanna possa essere affidata a quello che “tutti sanno”.
Biram mi spiega meglio con un esempio, e mi convince: “Quando troviamo per esempio una bambina che lavora in una casa, una bambina che non ha nulla, nemmeno un vestito, che dorme in una baracca attigua, che non ha ricevuto alcuna istruzione scolastica, che è stata separata dalla famiglia… di cos’altro c’è bisogno? Si tratta di una schiava, punto e basta!
Poi sentiamo i vicini che ci dicono: quella i vestiti non ce li ha, mentre i figli del padrone li hanno, quella non va a scuola, mentre i figli del padrone ci vanno, quella lavora in casa, mentre i figli del padrone non lavorano… ma si tratta solo di una conferma”.
“La realtà della schiavitù – prosegue Biram – è radicata e profonda. Anche gli ex-schiavi mantengono speciali relazioni di asservimento nei confronti dei loro maitre. Ci sono ex schiavi che oggi sono magari professori, poliziotti, oppure vivono all’estero. Eppure continuano ad essere sottomessi ai loro ex padroni e si sentono obbligati a fornire loro servizi e lavoro gratuito. Un poliziotto può ricevere, per esempio, l’ordine di abusare dei suoi poteri nei confronti di qualcuno non gradito al suo ex padrone. E si sente obbligato ad obbedire”.
“Anche io – dice ancora Biram – mantengo rapporti col mio ex maitre. Però nel mio caso i rapporti sono corretti e paritari, perché lui ha accettato di rispettare fino in fondo la mia libertà”.
“Criticano tanto i nostri metodi – conclude Biram – ma noi interveniamo solo in alcuni casi più eclatanti. Non pretendiamo certo di spezzare le catene che continuano ad unire perfino membri importanti della polizia o dell’Amministrazione ai loro ex padroni, né interveniamo su tutti i casi di schiavitù. Noi intendiamo liberare solo quegli schiavi che sono sottoposti a inaccettabili condizioni di sfruttamento nelle case e nelle campagne. Come quei due bambini che abbiamo recentemente liberato, di 9 e 7 anni: stavano soli in campagna, abbandonati a loro stessi, col compito di governare le capre… Quando ci si imbatte in simili situazioni che si fa? Si fanno disquisizioni giuridiche sulla valutazione della prova? No, grazie. Noi interveniamo e pretendiamo che i bambini siano liberati e i padroni puniti”.
Il ragionamento non fa una piega e Biram lo esprime con passione. Ed è proprio questa sua passione, unita alla determinazione, a renderlo pericolosissimo agli occhi dell’establishment. I suoi compagni temono aggressioni e lo sorvegliano giorno e notte. Il suo nome infatti è presente in tutti i giornali e risuona in molte moschee, dove viene additato come nemico dell’Islam. Lo stesso presidente della Repubblica, l’ex golpista Mohamed Ould Abdel Aziz, ha definito, in un recente discorso, i militanti dell’IRA come nemici del popolo, suscitatori di disordini e invitato a mantenere la vigilanza nei loro confronti.
Seguono due articoli, critici nei confronti dell’IRA e probabilmente in mala fede, ma che testimoniano dell’ampiezza e della grande eco suscitata dalle iniziative di Biram Abeid e dei suoi compagni.
Altre critiche hanno invece un carattere molto più evidentemente interessato. In calce a questo articolo riportiamo due articoli che contengono appunto questo punto di vista. Personalmente, condivido la valutazione di Biram che si tratta di un riposizionamento del fronte degli avversari: quegli stessi che fino a qualche anno fa negavano addirittura l’esistenza della schiavitù in Mauritania oggi sono costretti ad ammetterla, ma criticano Biram sostenendo che la sua iniziativa sconvolge un equilibrio socio-economico, con danno maggiore proprio per quegli schiavi che si vorrebbero salvare e che vengono invece privati anche della sola sussistenza che i padroni comunque assicurano loro.
La mia domanda a Biram è un’altra: “Si può salvare qualcuno contro la propria volontà?”
“Se non si ribellano è perché sono ignoranti e credono che accettare la volontà del padrone serva a guadagnare loro il paradiso. Ma basta che stiano anche un solo giorno con noi perché scelgano la libertà. D’altra parte – aggiunge – è la legge che vieta la schiavitù e la legge deve essere applicata anche contro la volontà dei diretti interessati”.
Devo riconoscere che mi procura un qualche disagio l’idea che le accuse (o forse le chiacchiere) di un qualche vicino bastino all’IRA per reclamare l’arresto del sospettato, attraverso l’organizzazione di sit-in, scioperi della fame ed altre forme di pressione. Lo dico a Biram, manifestandogli la preoccupazione che simili accuse possano nascondere rancori, gelosie, regolamenti di conti.
Biram sorride e mi ricorda che la Mauritania non è l’Europa, “qui c’è poca gente, tutti si conoscono, tutti conoscono gli schiavi e tutti conoscono i padroni…”.
La risposta non mi convince per niente, mi allarma l’idea che una condanna possa essere affidata a quello che “tutti sanno”.
Biram mi spiega meglio con un esempio, e mi convince: “Quando troviamo per esempio una bambina che lavora in una casa, una bambina che non ha nulla, nemmeno un vestito, che dorme in una baracca attigua, che non ha ricevuto alcuna istruzione scolastica, che è stata separata dalla famiglia… di cos’altro c’è bisogno? Si tratta di una schiava, punto e basta!
Poi sentiamo i vicini che ci dicono: quella i vestiti non ce li ha, mentre i figli del padrone li hanno, quella non va a scuola, mentre i figli del padrone ci vanno, quella lavora in casa, mentre i figli del padrone non lavorano… ma si tratta solo di una conferma”.
“La realtà della schiavitù – prosegue Biram – è radicata e profonda. Anche gli ex-schiavi mantengono speciali relazioni di asservimento nei confronti dei loro maitre. Ci sono ex schiavi che oggi sono magari professori, poliziotti, oppure vivono all’estero. Eppure continuano ad essere sottomessi ai loro ex padroni e si sentono obbligati a fornire loro servizi e lavoro gratuito. Un poliziotto può ricevere, per esempio, l’ordine di abusare dei suoi poteri nei confronti di qualcuno non gradito al suo ex padrone. E si sente obbligato ad obbedire”.
“Anche io – dice ancora Biram – mantengo rapporti col mio ex maitre. Però nel mio caso i rapporti sono corretti e paritari, perché lui ha accettato di rispettare fino in fondo la mia libertà”.
“Criticano tanto i nostri metodi – conclude Biram – ma noi interveniamo solo in alcuni casi più eclatanti. Non pretendiamo certo di spezzare le catene che continuano ad unire perfino membri importanti della polizia o dell’Amministrazione ai loro ex padroni, né interveniamo su tutti i casi di schiavitù. Noi intendiamo liberare solo quegli schiavi che sono sottoposti a inaccettabili condizioni di sfruttamento nelle case e nelle campagne. Come quei due bambini che abbiamo recentemente liberato, di 9 e 7 anni: stavano soli in campagna, abbandonati a loro stessi, col compito di governare le capre… Quando ci si imbatte in simili situazioni che si fa? Si fanno disquisizioni giuridiche sulla valutazione della prova? No, grazie. Noi interveniamo e pretendiamo che i bambini siano liberati e i padroni puniti”.
Il ragionamento non fa una piega e Biram lo esprime con passione. Ed è proprio questa sua passione, unita alla determinazione, a renderlo pericolosissimo agli occhi dell’establishment. I suoi compagni temono aggressioni e lo sorvegliano giorno e notte. Il suo nome infatti è presente in tutti i giornali e risuona in molte moschee, dove viene additato come nemico dell’Islam. Lo stesso presidente della Repubblica, l’ex golpista Mohamed Ould Abdel Aziz, ha definito, in un recente discorso, i militanti dell’IRA come nemici del popolo, suscitatori di disordini e invitato a mantenere la vigilanza nei loro confronti.
Seguono due articoli, critici nei confronti dell’IRA e probabilmente in mala fede, ma che testimoniano dell’ampiezza e della grande eco suscitata dalle iniziative di Biram Abeid e dei suoi compagni.
Kassataya.com
Bisogna per questo vendicarsi sui piccoli “haratin”?di Mohamed Baba
Dopo la condanna per fatti di sfruttamento di minori, intervenuta nella ”vicenda di Arafat”, una piccola psicosi si è diffusa tra la società maura. Le famiglie vedono agenti de l’Initiative pour la Résurrection du Mouvement Abolitioniste en Mauritanie (IRA_Mauritanie) ad ogni angolo di strada.
Il nome “Biram” è sulla bocca di tutti. Non si pensava potesse andare in prigione per così poco. Ragazzi e ragazze che lavorano nelle case sono diventati, da un giorno all’altro, altrettante occasioni, per vicini invidiosi, cugini gelosi e per ogni genere di persona maligna, di vendicarsi. Famiglie onorevoli sono state così trascinati in internet, calunniate e accusate di ogni colpa. Nonostante tutte le ambiguità e i rischi di errore che comportano i suoi metodi e le dichiarazioni di alcuni animatori, io giudico positivamente la lotta dell’IRA e sottolineo l’importantissimo ruolo che essa ha avuto nelle più recenti conquiste dei diritti delle persone in Mauritania. “Parigi val bene una messa”, diceva un illustre Protestante.
Tra tutte le reazioni e le discussioni suscitate dall’avvio dell’applicazione della legge che criminalizza la schiavitù e le pratiche schiaviste, adottata all’inizio del mandato del Presidente Sidi Ould Cheikh Abdallahi, voglio indicarne una sola. Parlo del piacere che sembrano provare alcuni mauri quando vedono dei lavoratori haratin (sfruttati o meno) messi alla porta dai loro datori di lavoro. “Gli sta bene, adesso possono andare a farsi assumere da Biram”, dicono alcuni, con una punta di perfidia.
E’ forse vero che l’applicazione pura e semplice, e senza misure di accompagnamento, della legge può provocare degli effetti perversi. La storia di Maissara, che vado a raccontare, ne è un esempio.
Maissara è un piccolo haratin, di padre ignoto. Sua madre, ragazza madre a 15 anni, aiuta sua nonna in una botteguccia quando i lavori nei campi non bastano a occupare tutta la famiglia. La nonna di Maissara alleva, oltre alla giovane madre, tre altri figli di varia età. Assai presto il piccolo Maissara si è trovato abbandonato a sé stesso. Anche nelle città dell’interno del paese, la strada è una scuola dura, pericolosa.
Un giorno, 5 anni fa, la nonna di Maissara lo ha condotto da Omar. C’erano là, nella famiglia di Omar, dei bambini della stesa età di Maissara, Omar è un direttore di scuola dai metodi rinomati e si preoccupa di tutti i bambini del quartiere. Non è raro che delle madri di famiglia, di ogni estrazione sociale, cambino di scuola i loro figli e li affidino al direttore Omar.
Per la nonna, Omar non è un direttore qualunque. Dei legami più complicati lo legano a lei e alle altre due sorelle. Contrariamente alle sue sorelle, la nonna di Maissara aveva conosciuto la propria nonna. Si chiamava “El bamberya”, portava delle cicatrici sul viso ed “apparteneva” in parte alla madre di Omar. Ma è una storia vecchissima. La nonna di Maissara, le sue prozie e la madre di queste ultime hanno sempre abitato dall’altro lato della città di Aleg. Tutte loro lavorano in case di Mauri “bianchi”, ma mai a casa di Omar. E questo sia per non farsi pagare da qualcuno della famiglia, sia per non essere trattate da ex schiave. Una tacita intesa si è stabilita tra le due famiglie, che vieta a ciascuna di esse di pagare il lavoro dell’altra. Nessuna clausola tuttavia vieta a Omar di aiutare quelli che considera come suoi protetti, né che questi ultimi glielo restituiscano in legna da ardere, balle di paglia, una parte del raccolto di fagioli bianchi o in semi di cocomero.
Senza niente di scritto, il direttore accettò di tenere Maissara, di incaricarsi della sua educazione e, soprattutto, della sua istruzione. Nessuna ragione obiettiva, spiegò alla nonna, impedirebbe a Maissara di diventare un ingegnere. E tuttavia – precisò – sarà trattato come tutti gli altri bambini, stessi diritti e stessi doveri. Si alzerà presto come gli altri, per aiutare a mungere le capre e per preparare la colazione. Farà gli acquisti e le altre commissioni per conto degli adulti della famiglia, come gli altri bambini. Dovrà sottomettersi al rituale del giro della vaschetta per lavare le mani con gli altri ragazzi della casa.
La famiglia di Omar è composita e nella casa abitano diverse generazioni. Era perché il nome Maissara era più facile da pronunciare o per considerazioni intime che vietavano ad alcune signore di pronunciare certi nomi ad alta voce? Fatto sta che il piccolo protetto di Omar era statisticamente quello che riceveva più ordini, rispetto agli altri piccoli della famiglia. Tuttavia Maissara non se ne è mai lamentato e Omar non perdeva occasione di ricordare a tutta la famiglia le clausole del contratto non scritto che giustificava la presenza del piccolo nella famiglia.
Poi vi è stato il caso di Arafat, un quartiere della capitale, lontano da Aleg. Alcuni militanti per i diritti dell’uomo hanno denunciato la presenza di ragazzine minorenni che lavoravano al servizio di una famiglia. “Mauri e “Haratin” sono stati coinvolti. Altri casi sono finiti in giudizio e, per qualcuno di essi, si prospetta la prigione.
Cosa fare del piccolo Maissara? Che cosa è Maissara agli occhi della legge? Quali legami ha con la famiglia di Omar?
Si è cercato di avere qualche parere qualificato, Omar si è recato dal Procuratore della Repubblica e gli ha esposto il caso di Maissara: “come si può – gli ha chiesto – difendere l’interesse di questo piccolo e restare nella legalità?” E l’amico della legge, il difensore della società, consiglia Omar di rimandare Maissara a casa sua. “Bisogna aspettare – gli ha detto – che passi questa tempesta. Tu potrai tenerlo di giorno, mentre la nonna lo terrà di notte”.
Altri pareri sono più netti: “Maissara non è membro della famiglia. Perché rischiare la prigione per così poco? Non si può ricavare niente da questo piccolo. Rimandatelo alla sua famiglia, che se la vedano loro e, se occorre, si rivolgano a Biram”.
Restituire Maissara alla nonna significa ritirarlo dalla scuola. Significa restituirlo ad un ambiente che non gli giova.
Ma dov’è lo Stato in questa vicenda? Dove sono i poteri pubblici? Perché il direttore Omar non può mantenere il piccolo Maissara a casa sua, assicurargli il vitto e curare la sua istruzione? Perché sua madre e sua nonna non possono firmare una liberatoria di responsabilità o un trasferimento della autorità genitoriale? Non dovrebbe esserci un modo di regolarizzare questa situazione al meglio, nell’interesse del bambino?
La situazione del piccolo Maissara è paradigmatica della grande complessità dell’applicazione della legge. Come regolarizzare la situazione di ragazzini e ragazzine a servizio? Esiste un contratto-tipo? A quale amministrazione rivolgersi? Chi potrebbe svolgere le funzioni di assistenti sociali, così utili negli altri paesi? E’ inammissibile che una questione così importante sia lasciata alla cura delle sole ONG. Se lo Stato ritiene che queste questioni riguardino i Diritti dell’uomo, perché non chiamare in causa la Commissione Nazionale Consultiva per i Diritti dell’Uomo?
E’ urgente che lo Stato faccia proprio questa questione, chiarisca le cose, orienti e soprattutto faccia in modo che i piccoli haratin non diventino vittime di una legge che dovrebbe liberare la loro comunità
Il nome “Biram” è sulla bocca di tutti. Non si pensava potesse andare in prigione per così poco. Ragazzi e ragazze che lavorano nelle case sono diventati, da un giorno all’altro, altrettante occasioni, per vicini invidiosi, cugini gelosi e per ogni genere di persona maligna, di vendicarsi. Famiglie onorevoli sono state così trascinati in internet, calunniate e accusate di ogni colpa. Nonostante tutte le ambiguità e i rischi di errore che comportano i suoi metodi e le dichiarazioni di alcuni animatori, io giudico positivamente la lotta dell’IRA e sottolineo l’importantissimo ruolo che essa ha avuto nelle più recenti conquiste dei diritti delle persone in Mauritania. “Parigi val bene una messa”, diceva un illustre Protestante.
Tra tutte le reazioni e le discussioni suscitate dall’avvio dell’applicazione della legge che criminalizza la schiavitù e le pratiche schiaviste, adottata all’inizio del mandato del Presidente Sidi Ould Cheikh Abdallahi, voglio indicarne una sola. Parlo del piacere che sembrano provare alcuni mauri quando vedono dei lavoratori haratin (sfruttati o meno) messi alla porta dai loro datori di lavoro. “Gli sta bene, adesso possono andare a farsi assumere da Biram”, dicono alcuni, con una punta di perfidia.
E’ forse vero che l’applicazione pura e semplice, e senza misure di accompagnamento, della legge può provocare degli effetti perversi. La storia di Maissara, che vado a raccontare, ne è un esempio.
Maissara è un piccolo haratin, di padre ignoto. Sua madre, ragazza madre a 15 anni, aiuta sua nonna in una botteguccia quando i lavori nei campi non bastano a occupare tutta la famiglia. La nonna di Maissara alleva, oltre alla giovane madre, tre altri figli di varia età. Assai presto il piccolo Maissara si è trovato abbandonato a sé stesso. Anche nelle città dell’interno del paese, la strada è una scuola dura, pericolosa.
Un giorno, 5 anni fa, la nonna di Maissara lo ha condotto da Omar. C’erano là, nella famiglia di Omar, dei bambini della stesa età di Maissara, Omar è un direttore di scuola dai metodi rinomati e si preoccupa di tutti i bambini del quartiere. Non è raro che delle madri di famiglia, di ogni estrazione sociale, cambino di scuola i loro figli e li affidino al direttore Omar.
Per la nonna, Omar non è un direttore qualunque. Dei legami più complicati lo legano a lei e alle altre due sorelle. Contrariamente alle sue sorelle, la nonna di Maissara aveva conosciuto la propria nonna. Si chiamava “El bamberya”, portava delle cicatrici sul viso ed “apparteneva” in parte alla madre di Omar. Ma è una storia vecchissima. La nonna di Maissara, le sue prozie e la madre di queste ultime hanno sempre abitato dall’altro lato della città di Aleg. Tutte loro lavorano in case di Mauri “bianchi”, ma mai a casa di Omar. E questo sia per non farsi pagare da qualcuno della famiglia, sia per non essere trattate da ex schiave. Una tacita intesa si è stabilita tra le due famiglie, che vieta a ciascuna di esse di pagare il lavoro dell’altra. Nessuna clausola tuttavia vieta a Omar di aiutare quelli che considera come suoi protetti, né che questi ultimi glielo restituiscano in legna da ardere, balle di paglia, una parte del raccolto di fagioli bianchi o in semi di cocomero.
Senza niente di scritto, il direttore accettò di tenere Maissara, di incaricarsi della sua educazione e, soprattutto, della sua istruzione. Nessuna ragione obiettiva, spiegò alla nonna, impedirebbe a Maissara di diventare un ingegnere. E tuttavia – precisò – sarà trattato come tutti gli altri bambini, stessi diritti e stessi doveri. Si alzerà presto come gli altri, per aiutare a mungere le capre e per preparare la colazione. Farà gli acquisti e le altre commissioni per conto degli adulti della famiglia, come gli altri bambini. Dovrà sottomettersi al rituale del giro della vaschetta per lavare le mani con gli altri ragazzi della casa.
La famiglia di Omar è composita e nella casa abitano diverse generazioni. Era perché il nome Maissara era più facile da pronunciare o per considerazioni intime che vietavano ad alcune signore di pronunciare certi nomi ad alta voce? Fatto sta che il piccolo protetto di Omar era statisticamente quello che riceveva più ordini, rispetto agli altri piccoli della famiglia. Tuttavia Maissara non se ne è mai lamentato e Omar non perdeva occasione di ricordare a tutta la famiglia le clausole del contratto non scritto che giustificava la presenza del piccolo nella famiglia.
Poi vi è stato il caso di Arafat, un quartiere della capitale, lontano da Aleg. Alcuni militanti per i diritti dell’uomo hanno denunciato la presenza di ragazzine minorenni che lavoravano al servizio di una famiglia. “Mauri e “Haratin” sono stati coinvolti. Altri casi sono finiti in giudizio e, per qualcuno di essi, si prospetta la prigione.
Cosa fare del piccolo Maissara? Che cosa è Maissara agli occhi della legge? Quali legami ha con la famiglia di Omar?
Si è cercato di avere qualche parere qualificato, Omar si è recato dal Procuratore della Repubblica e gli ha esposto il caso di Maissara: “come si può – gli ha chiesto – difendere l’interesse di questo piccolo e restare nella legalità?” E l’amico della legge, il difensore della società, consiglia Omar di rimandare Maissara a casa sua. “Bisogna aspettare – gli ha detto – che passi questa tempesta. Tu potrai tenerlo di giorno, mentre la nonna lo terrà di notte”.
Altri pareri sono più netti: “Maissara non è membro della famiglia. Perché rischiare la prigione per così poco? Non si può ricavare niente da questo piccolo. Rimandatelo alla sua famiglia, che se la vedano loro e, se occorre, si rivolgano a Biram”.
Restituire Maissara alla nonna significa ritirarlo dalla scuola. Significa restituirlo ad un ambiente che non gli giova.
Ma dov’è lo Stato in questa vicenda? Dove sono i poteri pubblici? Perché il direttore Omar non può mantenere il piccolo Maissara a casa sua, assicurargli il vitto e curare la sua istruzione? Perché sua madre e sua nonna non possono firmare una liberatoria di responsabilità o un trasferimento della autorità genitoriale? Non dovrebbe esserci un modo di regolarizzare questa situazione al meglio, nell’interesse del bambino?
La situazione del piccolo Maissara è paradigmatica della grande complessità dell’applicazione della legge. Come regolarizzare la situazione di ragazzini e ragazzine a servizio? Esiste un contratto-tipo? A quale amministrazione rivolgersi? Chi potrebbe svolgere le funzioni di assistenti sociali, così utili negli altri paesi? E’ inammissibile che una questione così importante sia lasciata alla cura delle sole ONG. Se lo Stato ritiene che queste questioni riguardino i Diritti dell’uomo, perché non chiamare in causa la Commissione Nazionale Consultiva per i Diritti dell’Uomo?
E’ urgente che lo Stato faccia proprio questa questione, chiarisca le cose, orienti e soprattutto faccia in modo che i piccoli haratin non diventino vittime di una legge che dovrebbe liberare la loro comunità
I mouseferine di Biram (1)
di Mohamed Ould Mohamed Lemine
Tutti sono d’accordo. I militanti anti-schiavisti sono riusciti in una grande e storica impresa, obbligando lo Stato a dichiarare guerra – al momento in modo assai timido – ai “maitre” schiavisti, in particolare arrestando i colpevoli di sfruttamento illegale di minori da loro denunciati.
Appena questa iniziativa per la difesa dei diritti dell’uomo è stata comunicata all’opinione pubblica, le famiglie che praticavano questo tipo di asservimento si sono fatte prendere dalla psicosi, mandando via da casa immediatamente migliaia di minori, che facevano lavorare nelle loro case o nei villaggi rurali, minori ai quali i genitori hanno ormai dato il nome di “mouseferine di Biram”.
Tra questi minori, che si possono paragonare a degli affrancati, per essere stati coraggiosamente liberati dal giogo impietoso della schiavitù, vi sono gruppi, certamente minoritari, che andavano a scuola, che aiutavano finanziariamente le loro madri bisognose a ridurre la considerevole dipendenza dagli ex padroni, permettendo loro di procurarsi poco alla volta un piccolo capitale di capre, di vacche e a costruirsi una casa.
Voglio qui solo deplorare la crudele assenza di misure di accompagnamento per un male i cui danni collaterali possono essere negativi, addirittura tragici, se la lotta contro la schiavitù resta circoscritta alla sola liberazione dei bambini, senza che siano loro garantiti degli sbocchi economici, che possano evitare alle ragazze di cadere nella prostituzione e ai ragazzi di essere arruolati nelle fila della criminalità, dal momento che nessuno di essi dispone di qualsivoglia mezzo per sopravvivere e per sostenere le madri e i piccoli.
Cosa che finirebbe per compromettere fortemente e in modo considerevole il processo di autonomia economica e sociale avviato da molto tempo dalle famiglie che si sono affrancate dagli ex padroni.
Infatti queste famiglie, la cui indipendenza è oggi a rischio, hanno case, baracche, rubinetti, animali che hanno potuto acquistare col sudore della fronte, grazie al danaro guadagnato dai bambini che lavorano in città.
Senza queste entrate, tutti i tentativi di mantenere la famiglia senza cadere nell’accattonaggio o nel lavoro servile crolla di un colpo, senza che queste persone abbiano alcuna speranza di evitare di ricadere in quella schiavitù dalla quale tentano di affrancarsi giorno per giorno, senza alcun aiuto da parte dello Stato, e potendo contare solo sulla loro resistenza e la loro capacità di adattamento alle nuove congiunture.
Ciò è tanto più vero dal momento che ogni famiglia si trova oggi esposta al sospetto e si sente obbligata a mettere alla porta questi minori, anche quando non sono totalmente asserviti.
E’ il caso per esempio di un minore che era affidato a un marabù per lo studio del Corano e che come ogni allievo della mahadra era tenuto a fare delle corvè per il padrone, e che adesso è stato rispedito dai suoi genitori che lo avevano mandato dal marabù allo scopo di allontanarlo dalle depravazioni della città e che oggi non sanno cosa fare per evitare al figlio i problemi della strada.
E’ ancora il caso di quella madre restata al villaggio, i cui due figli (un maschio e una femmina) sono ritornati (caso non isolato), perdendo quel lavoro che permetteva loro di nutrire tutti i fratellini, che oggi sono costretti a battere alla porta dell’ex padrone per ottenere cibo e acqua.
E questo non è che un solo esempio tra tanti verificatisi in una piccola località di sole 300 famiglie citata a titolo di esempio e dove questa lodevole lotta rischia di provocare un effetto boomerang.
L’altro esempio che si può anche citare per illustrare i danni collaterali di questa lotta anti-schiavista è il rifiuto che ormai gli ex maitre oppongono alle visite dei loro ex schiavi, coi quali pure condividevano molte buone cose, oltre al semplice asservimento, per timore di essere sorpresi in flagrante delitto da Biram e i suoi uomini, che, nell’immaginario di questi paesani, sono in agguato per scoprire nuovi casi di schiavitù per portare i colpevoli in tribunale.
L’altro giorno, durante il week end che ho trascorso al villaggio, alcuni ex schiavi mi hanno chiesto se davvero Biram era arrivato a “Lavita” (luogo di deviazione verso la località) e se intendesse venire da loro, mostrando un certo disappunto per gli effetti indotti della sua lotta; certamente, a causa della loro ignoranza, per irriconoscenza nei confronti della nobile lotta che Ould Dah Ould Abeid conduce per assicurare loro un domani migliore.
Una ex padrona vedendo il suo ex schiavo avvicinarsi per salutarla, gli ha detto impaurita: “Non entrare, torna a casa tua e dimmi ad alta voce cosa vuoi”. L’ex padrona, di solito pigra, costretta dalla sua pinguedine a chiedere aiuto, si sforza adesso bene o male di fare lei i lavori, prima affidati a questi bambini cui è vietato adesso anche solo di sederle accanto, dopo aver condiviso tutta una vita insieme.
Si potrebbero citare moltissimi esempi che dimostrano l’inadeguatezza di questa lotta contro la schiavitù che, al ritmo attuale, può creare nuovi problemi sociali.
Infine occorre riconoscere che l’obiettivo di questo messaggio è di invitare lo Stato e i militanti Anti-schiavisti a lavorare insieme, senza passioni e con tolleranza, per definire una politica pertinente che assicuri il successo completo del processo di integrazione degli ex schiavi.
(1) “Mouseferine” letteralmente vuole dire “cacciato”, “deportato”, e l’espressione si riferisce agli schiavi cacciati dai loro padroni, dopo l’iniziativa dell’IRA, il cui leader è Biram Abeid.
Nessun commento:
Posta un commento