Battaglia tra ribelli e truppe filogovernative. Gente in fuga. Saleh: «Vogliono una strage».
Foto di http://www.studio1.it/
Si fa sempre più difficile la situazione nello Yemen, dove dall'inziio della settimana sono in corso violenti scontri tra gli uomini del regime e le tribù locali. Una fase delicata che potrebbe precipitare in una vera e propria guerra civile, dopo che il capo dello Stato Ali Abdullah Saleh si è rifiutato di firmare l'accordo per la transizione dei poteri proposto dalle monarchie del Golfo e suggerito anche dagli Usa.
Massacro in città
Almeno ventiquattro persone sono state uccise da questa notte a Sana'a in violenti scontri a fuoco tra militari fedeli al presidente e membri di una potente tribù locale in lotta contro il regime. Altre 28 persone sarebbero morte nell’esplosione di un deposito di armi. Secondo l'ultimo bilancio, sarebbero quasi un centinaio le vittime dei combattimenti da lunedì scorso. Da ieri, in particolare, la situazione è diventata critica nella regione di Arhab, a nord dell'aeroporto della capitale yemenita. Lo scalo è stato chiuso al traffico e tutti i voli sono stati deviati su Aden, principale città del sud del paese. A confrontarsi sono gli uomini di Saleh e i seguaci del potente capo tribù degli Hached, sceicco Sadek al Ahmar.
Gli Usa ai concittadini: lasciate il Paese
Secondo un comunicato del ministero dell'Interno citato dall'agenzia Sheba, «i figli di Al Ahmar e la loro banda hanno lanciato granate su molti abitanti nella zona di Al Hasaba». Una di queste ha centrato una casa, uccidendo quattro civili, tra cui una donna, ha fatto sapere il ministero. Le autorità di Sana'a hanno fatto sapere che gli elementi tribali «non hanno ancora risposto all'appello del presidente a cessare i loro attacchi contro i membri delle forze di sicurezza e gli edifici pubblici», addossando a loro «l'intera responsabilità delle conseguenze delle loro aggressioni». Intanto, con una decisione che rispecchia la crescita della tensione nello Yemen, gli Stati Uniti hanno deciso di evacuare le famiglie del personale diplomatico Usa e tutto gli impiegati non indispensabili della sede diplomatica. Il Dipartimento di Stato ha messo in guardia tutti i cittadini americani presenti nel paese dell'alto livello di insicurezza a causa delle attività terroristiche e dei disordini civili.
La minaccia di Saleh
«Ciò che sta accadendo, sono azioni provocatorie per trascinarci in una guerra civile» ha detto ieri il presidente Saleh, aggiungendo che egli comunque combatterà contro «coloro che minacciano la stabilità e la sicurezza del Paese». Dopo quattro mesi di manifestazioni, repressione e scontri sporadici in tutto il Paese, che hanno causato la morte di oltre 220 persone, domenica socorsa il presidente si è rifiutato per la terza volta, all’ultimo momento, di firmare un accordo per la sua volontaria uscita di scena in cambio dell’immunità. Un accordo mediato dai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (formato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Bahrein e Kuwait), che hanno poi interrotto i loro sforzi e che oggi Saleh ha esortato a fare passi conciliatori, pur sottolineando che egli non prenderà ordini da alcuna potenza straniera. Appena poche ore dopo, da Londra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama lo ha esortato a lasciare il potere «immediatamente».
La diplomazia al lavoro
Se Saleh si ostinerà a non firmare, gli Usa potrebbero fare pressioni sulle Nazioni Unite affinchè a lui e ai membri della sua famiglia che occupano importanti posti nella gerarchia militare politica, vengano imposte severe sanzioni, secondo fonti a Washington citate dal New York Times. In un’intervista alla Reuters, Saleh si è oggi di nuovo detto «pronto a firmare, nell’ambito di un dialogo nazionale e di un chiaro meccanismo per la transizione del potere». E in tono conciliante, ha anche aggiunto che lascerà la presidenza ma non il Paese, e continuerà a fare politica dalle file dell’ opposizione. In molti a Sana'a però sembrano non volergli più credere. Sin da ieri mattina, molte famiglie hanno iniziato ad abbandonare la città, nel timore di una escalation ulteriore degli scontri iniziati lunedì scorso, quando le forze governative hanno affrontato gli uomini della tribù Hashid nei pressi della residenza del loro capo, Sadek al-Ahmar, accusandoli di ammassare armi all’interno di una scuola. «Lo Yemen, spero - ha detto Saleh - non sarà un altro Stato fallito o un’altra Somalia. La gente è ancora in grado di gestire una transizione pacifica del potere». Prospettiva che però, affermano oggi diversi osservatori, sembra sempre più lontana.
Massacro in città
Almeno ventiquattro persone sono state uccise da questa notte a Sana'a in violenti scontri a fuoco tra militari fedeli al presidente e membri di una potente tribù locale in lotta contro il regime. Altre 28 persone sarebbero morte nell’esplosione di un deposito di armi. Secondo l'ultimo bilancio, sarebbero quasi un centinaio le vittime dei combattimenti da lunedì scorso. Da ieri, in particolare, la situazione è diventata critica nella regione di Arhab, a nord dell'aeroporto della capitale yemenita. Lo scalo è stato chiuso al traffico e tutti i voli sono stati deviati su Aden, principale città del sud del paese. A confrontarsi sono gli uomini di Saleh e i seguaci del potente capo tribù degli Hached, sceicco Sadek al Ahmar.
Gli Usa ai concittadini: lasciate il Paese
Secondo un comunicato del ministero dell'Interno citato dall'agenzia Sheba, «i figli di Al Ahmar e la loro banda hanno lanciato granate su molti abitanti nella zona di Al Hasaba». Una di queste ha centrato una casa, uccidendo quattro civili, tra cui una donna, ha fatto sapere il ministero. Le autorità di Sana'a hanno fatto sapere che gli elementi tribali «non hanno ancora risposto all'appello del presidente a cessare i loro attacchi contro i membri delle forze di sicurezza e gli edifici pubblici», addossando a loro «l'intera responsabilità delle conseguenze delle loro aggressioni». Intanto, con una decisione che rispecchia la crescita della tensione nello Yemen, gli Stati Uniti hanno deciso di evacuare le famiglie del personale diplomatico Usa e tutto gli impiegati non indispensabili della sede diplomatica. Il Dipartimento di Stato ha messo in guardia tutti i cittadini americani presenti nel paese dell'alto livello di insicurezza a causa delle attività terroristiche e dei disordini civili.
La minaccia di Saleh
«Ciò che sta accadendo, sono azioni provocatorie per trascinarci in una guerra civile» ha detto ieri il presidente Saleh, aggiungendo che egli comunque combatterà contro «coloro che minacciano la stabilità e la sicurezza del Paese». Dopo quattro mesi di manifestazioni, repressione e scontri sporadici in tutto il Paese, che hanno causato la morte di oltre 220 persone, domenica socorsa il presidente si è rifiutato per la terza volta, all’ultimo momento, di firmare un accordo per la sua volontaria uscita di scena in cambio dell’immunità. Un accordo mediato dai Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (formato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Bahrein e Kuwait), che hanno poi interrotto i loro sforzi e che oggi Saleh ha esortato a fare passi conciliatori, pur sottolineando che egli non prenderà ordini da alcuna potenza straniera. Appena poche ore dopo, da Londra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama lo ha esortato a lasciare il potere «immediatamente».
La diplomazia al lavoro
Se Saleh si ostinerà a non firmare, gli Usa potrebbero fare pressioni sulle Nazioni Unite affinchè a lui e ai membri della sua famiglia che occupano importanti posti nella gerarchia militare politica, vengano imposte severe sanzioni, secondo fonti a Washington citate dal New York Times. In un’intervista alla Reuters, Saleh si è oggi di nuovo detto «pronto a firmare, nell’ambito di un dialogo nazionale e di un chiaro meccanismo per la transizione del potere». E in tono conciliante, ha anche aggiunto che lascerà la presidenza ma non il Paese, e continuerà a fare politica dalle file dell’ opposizione. In molti a Sana'a però sembrano non volergli più credere. Sin da ieri mattina, molte famiglie hanno iniziato ad abbandonare la città, nel timore di una escalation ulteriore degli scontri iniziati lunedì scorso, quando le forze governative hanno affrontato gli uomini della tribù Hashid nei pressi della residenza del loro capo, Sadek al-Ahmar, accusandoli di ammassare armi all’interno di una scuola. «Lo Yemen, spero - ha detto Saleh - non sarà un altro Stato fallito o un’altra Somalia. La gente è ancora in grado di gestire una transizione pacifica del potere». Prospettiva che però, affermano oggi diversi osservatori, sembra sempre più lontana.
Fonte: La Stampa
26 maggio 2011
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