domenica 27 febbraio 2011

Contestazione contro coercizione nel mondo arabo


Bernard Duterme 
Tradotto da  Curzio Bettio



Lo scacco delle politiche di uno sviluppo mimetico, che si stenta ad individuare,  l’ansimare dei motori ideologici degli Stati postcoloniali e le crisi lasciate aperte dal liberismo economico stanno alimentando il malcontento popolare nel mondo arabo. Sommosse, nuovi sindacati autonomi, movimenti islamisti, associazioni di base e ONG, minoranze nazionali si scontrano con l’autocratismo autoritario dei regimi al potere, monarchie e repubbliche. 
Se pretendere di elaborare uno Stato delle resistenze nel mondo arabo appare a prima vista come affrontare una sfida, questo è principalmente dovuto ai formidabili luoghi comuni che strutturano l’immaginario occidentale a questo riguardo. Un immaginario spesso alimentato dall’indifferenza e dall’ignoranza, ma anche dal disprezzo o dalla diffidenza, che la vicinanza geografica peraltro tende ad esacerbare più che ad attenuare.
Tutto all’opposto dell’America latina, di cui Marc Saint-Upéry (2007) parla a ragione come di “un luogo dall’esotismo stranamente familiare e di uno spazio di proiezione privilegiato”, in particolare per la sinistra europea, le sponde meridionali ed orientali del Mediterraneo rinviano di più ad “una vicinanza stranamente distante” e ad “una fonte di perplessità che si perpetua”.
Due paradigmi dominanti offuscano singolarmente le nostre percezioni delle dinamiche delle contestazioni in atto in questa regione.
Immediatamente, quello del “vuoto di protagonisti” della società civile, che caratterizzerebbe queste società non democratiche. L’autoritarismo, il militarismo o gli strappi in varie direzioni degli Stati del Maghreb e del Medio Oriente avrebbero per corollario meccanico la confisca redibitoria di ogni spazio autonomo di mobilitazione dei cittadini e di contestazione sociale. In uno schema semplificato, la contestazione sociale risulta un punto d’alternativa reale fra la sottomissione e la sedizione.
Quindi, una duplice rappresentazione, di alienazione e di omogeneizzazione, della “via araba”, talora apatica, inerte, “morta”, e talora “irrazionale”, bellicosa, pericolosa (Bayat, 2003). All’idea di società statiche, bloccate, si contrappone lo spauracchio di invasioni minacciose e di movimenti sgradevoli (« ugly movements », movimenti preoccupanti)…
 
Il che ci porta al secondo luogo comune altrettanto diffuso su questa sponda del Mediterraneo, vale a dire l’esaurimento di gran parte delle forme di protesta nel mondo arabo di fronte alla categoria concretizzata dei “folli di Dio”, la categoria dei fanatici religiosi che determina e sovradimensiona la retorica religiosa.
Le contraddizioni supposte intrinseche fra i movimenti islamisti e le dinamiche di modernizzazione sociale e politica sono sufficienti per “ghettizzare” l’oggetto, per stigmatizzarlo. La pretesa “eccezione arabo-musulmana” ha buon gioco, nutrita dal mito essenzialista * di “una specificità culturale ed irriducibile di queste società” e da una esibizione affettata di cultura tutta centrata su un fondamentalismo islamista stereotipato (Bennani-Chraïbi et Fillieule, 2003). * [N.d.tr.: per essenzialismo si intende una concezione filosofica che afferma la priorità delle essenze rispetto alle cose nella loro esistenza concreta.]
Ora, le realtà dei movimenti di resistenza all’ordine costituito e alle disuguaglianze sociali nel mondo arabo appaiono, ad un secondo livello di lettura, allo stesso tempo più di spessore, più dinamiche e più complesse.
Ed esse si iscrivono in un contesto in evoluzione.Lo scacco delle politiche di sviluppo mimetico, l’ansimare dei motori ideologici degli Stati postcoloniali e le crisi lasciate aperte dal liberismo economico, dalla mondializzazione e dalla geopolitica del petrolio stanno alimentando il malcontento popolare e hanno aperto la via al (ri)emergere o all’assunzione di autonomia di organizzazioni sociali, identitarie, nazionaliste e democratiche…
Poteri autocratici e crisi di legittimità
Dal Marocco all’Egitto, dalla Siria al Qatar, dalla Libia all’Arabia Saudita, se esiste una costante che soffre di poche inflessioni nel mondo arabo, dall’indipendenza ad oggi, questo è il carattere autocratico ed autoritario della sua ventina di Stati post-coloniali. Monarchie e repubbliche senza distinzione – al di là delle loro opposizioni mutevoli in materia di obbedienze esterne e di gestione interna dei rapporti fra arabismo ed islamismo (Khader, 2009) – condividono questo tratto comune: nonostante le loro gravi crisi di legittimità, sono riuscite a stabilizzare, conservare e consolidare il loro potere nel corso di decenni. Un potere costruito sulla scia di lotte di liberazione nazionale e fortemente accentrato fin dall’inizio per rispondere tanto al desiderio di indipendenza che ai bisogni di sviluppo economico e alle aspettative sociali delle popolazioni. 
“Recupero del ritardo storico”, riforme agrarie, modernizzazione, nazionalizzazione, industrializzazione, queste furono le parole d’ordine di quel periodo. Attraverso il nazionalismo, il pan-arabismo, o il socialismo come propulsori politici, gli Stati arabi hanno colato la concentrazione del potere dentro il cemento delle loro costituzioni. Ai loro occhi, questo era il mezzo più adeguato per “garantire la loro indipendenza di fronte alle minacce esterne, contenere le tensioni sociali, addolcire le discrepanze fra le classi e, pertanto, ridurre qualsiasi fonte potenziale di conflitto”  (Khalil, 2004).
Il bilancio di questi primi decenni di “terzo-mondismo” è ben conosciuto: se sono stati registrati innegabili ed importanti progressi sociali – i governanti traggono una buona parte della loro legittimità dalla loro funzione ripartitiva e distributiva –, il nazionalismo arabo statalista ha ben presto dovuto affrontare molteplici crisi. Crisi politiche, economiche, sociali e culturali.
La bruciante sconfitta militare contro Israele nel 1967 e le rivalità interarabe – fra nasseriani [1] e baathisti [2], fra baathisti siriani ed iracheni, fra “repubbliche progressiste” sullo sfondo della guerra fredda, ecc. – hanno contribuito al netto declino ideologico del sogno pan-arabista.  
All’interno, le crisi di finanziamento e le carenze delle strategie per un’industrializzazione sostitutiva delle importazioni, in aggiunta all’indebitamento fuori controllo (dei paesi privi di rendite petrolifere per cancellare il debito), all’esplosione demografica, all’aggravio della dipendenza alimentare e al montare dell’insoddisfazione popolare nei confronti delle élite militari o delle grandi famiglie regnanti, gettano i governi arabi in balia dei venti dominanti l’economia internazionale: aggiustamenti strutturali, liberalizzazioni, privatizzazioni, integrazione subordinata al mercato mondiale.   
Tuttavia, lo sgretolamento progressivo del ruolo dello Stato e il “pluralismo politico” a dosi controllate non vanno ad intaccare l’autocratismo centralizzatore, i partiti unici e i “leader a vita”. Al contrario, i regimi autoritari si ritrovano consolidati (Camau, 2005).
Come scrive Bichara Khader. “Gli Stati, ancorché indeboliti, danno prova di una eccezionale resistenza, grazie alla concentrazione degli apparati di coercizione e alle loro alleanze con le potenze straniere, che alla fine preferiscono trattare con degli Stati, per quanto autoritari, ma stabili ed affidabili”(2009).
Sullo sfondo del nepotismo, del clientelismo e della corruzione, le collusioni fra le élite politiche ed economiche hanno giocato un ruolo centrale nella penetrazione del capitale straniero e nello sviluppo di un capitalismo speculativo. La rendita petrolifera e il surplus economico sono prevalentemente collocati nel mondo occidentale, piuttosto che investiti nel mondo arabo (Mutin, 2009).
Nel contempo, i governanti al potere cercheranno di continuare a basare la loro legittimità sulle tradizioni: patriarcali, monarchiche, tribali e…islamiche.
Ad una islamizzazione alla base delle società arabe, generata nei vicoli ciechi delle politiche di modernizzazione, risponde in realtà una qualche reislamizzazione dall’alto dei regimi al potere.
Se la devota oumma (comunità dei credenti) ha rimpiazzato la grande nazione araba nell’immaginario politico, se non si può più ignorare che l’islamismo ha ripreso dalle mani del nazionalismo arabo la bandiera della resistenza, non bisogna sorprendersi: non solamente perché il nazionalismo arabo ha subito delle severe sconfitte, ma anche perché la fede musulmana ha sempre impregnato le nostre società nel corso della storia” (Ben Abdallah El Alaoui, 2009).
La permanenza al potere delle compagini governative tende ad accreditare l’idea che questa adesione opportunista al discorso islamista – per evitare che questo discorso non venga utilizzato contro di esse – si è trasformata in una vittoria politica, che consolida la loro sicurezza (Ferrié, 2009).
Ancora più di recente, abbiamo assistito ad un certo “ritorno dello Stato” da parte delle autorità arabe, almeno nella retorica. E questo, in primo luogo, grazie ad una crisi mondiale che ha portato a compimento il discredito dei fautori della doxa neoliberista [N.d.tr.: doxa in filosofia corrisponde ad un’opinione che può cambiare, ed è soggettiva] e ha riattualizzato il principio dell’intervento pubblico e l’importanza delle politiche sociali…per prevenire le agitazioni (Alternatives Sud, 2009); secondariamente, grazie alla ritrovata capacità delle grandi nazioni del Sud a mettere in questione collettivamente l’ordine mondiale, e alla volontà “terzo-mondista” di gestire per se stesse nuovi margini di manovra nei campi della politica e dell’economia, al fine di recuperare il controllo della loro integrazione nella globalizzazione (Alternatives Sud, 2007).
La partecipazione attiva dei presidenti Kadhafi (Libia) e Bouteflika (Algeria) al secondo summit Africa-America del Sud che si è tenuto in Venezuela nell’autunno 2009 si inscrive in questa tendenza.
 
Movimenti sociali e società civili autonome e progressiste?
 
In questo contesto, che consacra la persistenza dei poteri alle bussole ideologiche ciclotimiche *, poteri prudentemente pronti a tutto pur di durare, sono presenti delle resistenze interne?  Dei sindacati operai o contadini, di ieri e dell’oggi? Dei movimenti islamisti, che, nella loro diversità, sembrino dominare il panorama delle organizzazioni sociali? Delle minoranze nazionali, etniche, tribali o religiose, che corrodono l’unità degli Stati post-coloniali? Associazioni, socialmente integrate o meno, che modificano o sfidano l’ordine costituito? Inoltre, qual è l’atteggiamento specifico delle autorità nei loro confronti, le modalità di esercizio del dominio? Repressione, strumentalizzazione, cooptazione, istituzionalizzazione o trasformazione?
*[N.d.tr.: ciclotimia è la condizione psicologica che alterna fasi di eccitazione a fasi di depressione]
 
Sindacati: se non “inquadrati”, la repressione! 
 
All’indomani delle diverse indipendenze, le forme assunte dalle organizzazioni dei lavoratori arabi  – delle città come delle campagne – si sono collegate intimamente al profilo modernizzatore dei nuovi Stati post-coloniali. Motori dei processi di industrializzazione che miravano a dotare gli Stati di autentiche economie nazionali, questi sindacati sono diventati anche i principali datori di lavoro per nuove classi di salariati.  
Le strategie di sviluppo, più spesso animate da un populismo socialista che tende a celebrare “il popolo” come un organismo saldamente unito, cercano quindi di “attenuare le conseguenze negative di una crescita in favore di  certi gruppi sociali (gli operai, i contadini, la piccola borghesia urbana) a scapito di altri, in particolare dei capitalisti e dei proprietari fondiari” (Heydemann, 1999, citato da Gobe, 2008).
Di fatto, lo Stato appare agli occhi dei lavoratori – “colletti blu” e “colletti bianchi” – allo stesso tempo come duplice distributore di reddito – salariato pubblico e vantaggi di utilità sociale (istruzione, sanità, abitazione…) – e come garante di una sicurezza di esistenza in pieno progresso.  Contropartita dello stato sociale: “Istituzione di organizzazioni professionali sotto controllo governativo, leggi limitanti o annullanti il diritto di associazione, destrutturazione di tutti i movimenti di resistenza e ricorso a provvedimenti coercitivi di pubblica sicurezza interna, comprese misure di violenza” (Khalil, 2004).
In una parola, la scienza politica definisce questo sistema “corporativismo autoritario”.
Si tratta di “inquadrare gruppi sociali popolari in strutture verticali, gerarchiche, di mobilitazione a vantaggio di un progetto nazionale di sviluppo” (Gobe, 2008), progetto nazionale che fa riferimento…al socialismo, in Egitto come, con gradi diversi negli anni 1960-1970, in Tunisia, in Algeria, in Siria, in Iraq, in Libia.
Esclusa l’idea di conflitto o di lotta di classe, i sindacati e le organizzazioni di categoria si rivelano quindi strumenti di inquadramento, di mobilitazione della società e di disinnescamento di ogni forma di protesta. Strumenti attraverso i quali i quadri parlano in nome dei lavoratori, ma effettivamente sono schierati al servizio dei governanti, ricevendo in cambio proporzionali gratificazioni.
A seconda dei paesi, la formula conosce diverse declinazioni evolutive. Immediata o progressiva, populista o integrazionista, tecnocratica od organica, nell’ambito di un’unica confederazione o a livelli molteplici, la neutralizzazione delle capacità rivendicative dei lavoratori genera anche strategie diverse nelle menti dei dirigenti sindacali più combattivi. Strategie pericolose, che vanno dalla volontà di dare battaglia all’interno degli stessi canali di mobilitazione ufficiali, fino ai tentativi  di sottrarsi all’egemonia governativa, dando origine alla nascita di un movimento operaio a margine di un sindacato legittimista.
Il mutamento neoliberista degli anni ’80 induce profonde trasformazioni socio-economiche.
Le politiche di liberalizzazione e di privatizzazione, concomitanti con la messa in campo di programmi di aggiustamento strutturale, da una parte impongono serie restrizioni alle “basi”classiche, rappresentate dalle organizzazioni ufficiali di categoria, d’altra parte diversificano in modo significativo i gruppi sociali e incrementano la flessibilizzazione, la precarizzazione, la disoccupazione e la “liberazione da lacci e laccioli” di larghi settori dell’economia.
Corollario, conseguenza evidente: sullo sfondo di un’apparente democratizzazione, il corporativismo di Stato degli anni ’60 e ’70 viene costretto ad una “ristrutturazione tattica dei suoi meccanismi di controllo” (Murphy, 1999) e, alla fine della sua trasformazione, non rimane altro che la sua dimensione repressiva (Gobe, 2008).
 
Sul versante dei lavoratori, se le nuove condizioni socio-economiche operano principalmente come fattori di dispersione e smobilitazione sociale, nondimeno spalancano le porte ad esplosioni di contestazioni incontrollate, spesso al di fuori degli organismi sindacali ufficiali.
Sempre più spesso scollegati dalla realtà sociale, questi organismi sono tuttavia chiamati dalle autorità al ruolo di coloro che devono soffocare le rivendicazioni che si concentrano sugli orientamenti economici, sulla corruzione, il clientelismo, il sistema di privilegi dell’ordine costituito, o su tutti i casi di sfruttamento. Naturalmente, con variazioni significative secondo le specifiche configurazioni storiche e nazionali.
Infatti, poche sono le somiglianze, ad esempio, tra la completa sottomissione al potere della Confederazione generale dei sindacati dei lavoratori di Egitto, senza più alcun controllo sulla sua base presunta, la relativa indisciplina dell’Unione generale dei lavoratori di Tunisia, lacerata fra l’azione dei sindacati di base e la concertazione ingannatrice del regime di Ben Ali, e il fraudolento pluralismo sindacale del Regno dello Sceriffo (il Marocco). In Iraq, il governo sotto tutela degli Stati Uniti continua ad applicare le leggi antisindacali dell’era di Saddam Hussein, in particolare “la tristemente famosa legge 150, che vieta la presenza dei sindacati all’interno delle imprese pubbliche e para-statali” (CSI, 2009).
Praticamente in tutto il mondo arabo, tende a prevalere la repressione a fronte dell’emergere dell’attivismo di sindacati indipendenti e alle mobilitazioni contro i massicci licenziamenti conseguenti alla crisi economica mondiale.
In Giordania, le violenze della polizia contro i lavoratori del porto di Aqaba, nel mese di agosto 2009, hanno scosso gli animi.
In Egitto, una serie di manifestazioni contro la chiusura di fabbriche e per i diritti dei lavoratori hanno scatenato interventi delle forze dell’ordine di una brutalità estrema. E anche se all’inizio dell’anno un primo sindacato settoriale indipendente (circa 50.000 membri) è riuscito a farsi riconoscere in questo paese, recenti manovre governative mirano a limitarne l’indipendenza e i margini d’azione.
In Marocco, i sindacati rischiano di essere perfino esclusi da futuri tavoli di negoziato sui salari e sulle condizioni di lavoro (CSI, 2009). E in Tunisia, i disoccupati e i lavoratori coinvolti nella “rivolta del bacino minerario di Gafsa” del 2008 stanno ancora dietro le sbarre (Gantin e Seddik, 2008).
Comunque, questi fermenti sociali a mala pena nascondono il relativo declino dei tradizionali movimenti sociali basati sull’identità di classe (organizzazioni contadine, cooperative, sindacalismo…), che da tanto tempo sono assoggettati ai regimi al potere.  
Oggi, più che mai, la grande maggioranza dei lavoratori è dispersa nell’economia urbana deprivata di regole formali, e la questione sociale va ben oltre le lotte per i salari, per includere le problematiche dell’accesso al lavoro, all’abitazione, all’acqua, all’istruzione, alla sanità, ai trasporti…a delle condizioni di vita dignitosa.
 
Movimenti islamisti : contestazione sociale e affermazione identitaria
Nonostante la stabilità impressionante di monarchie ereditarie e di repubbliche militari nel mondo arabo, che sembra in contraddizione con l’ondata di contestazioni, la pressione islamista occupa effettivamente il centro della scena da almeno tre decenni.  
“Reazione di gruppi sociali delusi dai fallimenti del ‘nazionalismo laico’ o frutto delle tensioni conseguenti alle politiche di modernizzazione”, l’islamismo – ideologia sociopolitica contemporanea, più che teologia – sembra anzitutto l’espressione sociale di una volontà di “ripresa nelle mani di società in una fase di acculturazione e di occidentalizzazione” (Mutin, 2009). Ripresa, certamente in una fase culturale, ma anche sociale e politica e, in misura minore, anche economica.
Detto questo, all’idea di un islamismo “spazio di compensazione” delle mutazioni traumatizzanti (esodo dalle campagne, urbanizzazione accelerata, boom demografico), dello scacco dello sviluppismo e dello “Stato corporativo”, della crisi economica e del sentimento di marginalizzazione esacerbato dalla mondializzazione, François Burgat aggiunge a ragione “la dimensione culturale, identitaria e nazionalista del fenomeno, sfumando la sua dimensione strettamente religiosa, considerando come relativamente marginale la sua componente estremista e soprattutto, denunciando l’idea della sua presunta antinomia con le dinamiche della modernizzazione sociale e della liberalizzazione politica” (Burgat, 2001, citato da Bennani-Chraïbi e Fillieule, 2003).
Il fenomeno assai complesso è profondo e consolidato.
Consolidato in quelle identità sociali, che si sono fin dal primo momento mobilitate, che vanno dalle vittime degli inadempimenti dello Stato, dai rifiutati dalla società a causa dell’accrescimento delle disuguaglianze, o dai giovani universitari in contrasto con il sistema, fino ai settori garantiti, socialmente più agiati.   
Consolidato nelle modalità di organizzazione, e poi di mobilitazione che, in una moltitudine di quartieri e di villaggi del mondo arabo, si concretizzano in istituzioni e associazioni islamiche, che mettono a disposizione un’ampia gamma di servizi sociali e di aiuti alle famiglie e alle comunità diseredate. 
Infine, il fenomeno è assolutamente poliedrico nei suoi orientamenti, negli effetti che assegna alle sue azioni, nelle sue rivendicazioni.
A volte l’islamismo viene qualificato di “neo-terzomondismo”, nel senso che mette in attuazione l’agenda nazionalista ed anti-imperialista dei partiti o movimenti di sinistra, che in certo qual modo  è venuto  a supplire sullo scenario della protesta araba, a volte viene assimilato ad un esclusivismo religioso discriminatorio nei confronti dei non-musulmani e delle donne, tuttavia l’islamismo seduce o cattura gli attori sociali progressisti. 
In ogni caso, l’islamismo fornisce il grosso delle folle e dei movimenti che contestano l’attuale ordine politico arabo e, ancor di più, l’“occidente colonialista” in nome dell’autodeterminazione del popolo palestinese e del mondo arabo-musulmano.
Nicolas Dot-Pouillard, che coglie su questo asse “emancipatore” una serie di convergenze delle modalità di azione fra organizzazioni islamiste di diverse obbedienze e tendenze di sinistra, nota tuttavia che la divaricazione fra questi due poli risiede meno sulle questioni democratiche o di genere (fra “tradizionali” e “moderni”) – pregiudizio nondimeno tenace – e più sulla questione sociale (tra liberisti e socialisti). Questione sociale, che in effetti tende a contrapporre il posizionamento economico spesso a destra dell’islam politico –  così come le contraddizioni di classe al suo interno –, alle campagne contro le privatizzazioni e alle chiavi di analisi marxista delle sinistre (Dot-Pouillard, 2009).
Sotto questo aspetto come sui precedenti, “l’infinita variazione delle configurazioni locali” (Dupret, 1999) e la molteplicità delle fonti di riferimento dei protagonisti islamisti relativizzano fortemente le letture generalizzanti. 
Mentre molti di questi protagonisti sono spesso venuti alla ribalta grazie al beneplacito degli Stati arabi (per indebolire le opposizione interne di sinistra) e delle potenze occidentali (per dare scacco matto all’arabismo laico di ispirazione socialista), sono questi stessi attori che in conclusione danno loro filo da torcere.
Nei diversi paesi, hanno prevalso scenari diversi: dal confronto sanguinoso fra fazioni islamiste armate e forze armate che volevano estirparle (Algeria), all’inclusione condizionata nel gioco politico (Giordania) …
In tutti i casi, molti osservatori hanno da molto tempo diagnosticato il fallimento dell’islam politico  (Roy, 1992), specialmente per la mancanza di un contro-modello di società, per l’assenza di una proposta di un’alternativa economica. I regimi, che siano più o meno islamizzati, sono infatti ancora al potere. Quanto alla reislamizzazione delle società, se anche realizzata, non avrebbe mutato per nulla le regole del gioco politico ed economico (Mutin, 2009).
Ancora, il terreno sociale e culturale, che ha visto nascere la contestazione islamista nelle sue estreme diversità e nelle sue invarianti, non ha subito dei veri cambiamenti, e ancor oggi sono le diverse espressioni di queste spinte di opposizione nella loro molteplicità a costituire una realtà centrale nel mondo arabo.    
 
Solidarietà primarie e ONG : una “società civile” contrastata
 
Un altro fenomeno in forte progresso nel mondo arabo, dopo la svolta neo-liberista e il graduale disimpegno degli Stati dalle loro responsabilità sociali: le organizzazioni non governative (ONG).
Il fenomeno, che a partire dalla metà degli anni ‘80 si identifica con la denominazione di origine occidentale “società civile”, deve essere immediatamente ripartito in due realtà distinte, con riferimento a dinamiche sociali di natura effettivamente molto differente, che Sarah Ben Néfissa, fra altri, contraddistingue in: ONG di servizi da un lato, e ONG di patrocino (in favore dei diritti, delle libertà, della democrazia) dall’altro (Ben Néfissa, 2003). Questo, tuttavia, senza negare la nascita di altre organizzazioni che mutuano i due modelli (Denoeux, 2003).
Le prime – le ONG di servizi –, di gran lunga le più numerose, operano nel campo dell’assistenza sociale e sanitaria delle vittime dell’affievolirsi delle capacità distributive degli Stati, anzi della decomposizione degli Stati, là dove le crisi si fanno più acute o dove prevalgono le guerre.  
Al servizio, secondo i casi, delle classi medie urbane impoverite, delle popolazioni rurali, dei bambini…, spesso queste ONG ostentano pubblicamente una iscrizione religiosa, islamica o cristiana. A volte criticate per le loro tutele di carattere economico, o per le loro priorità più sul curare che non sul prevenire, per le loro azioni di carità piuttosto che di natura politica, a volte      decantate per le loro modalità d’azione flessibili, efficaci, partecipative, si caratterizzano più spesso per il loro profilo “para-pubblico” o “para-amministrativo” (Ben Néfissa, 2003), tratto particolare della maggior parte delle organizzazioni civili arabe.
Intermediatrici fra i bisogni delle popolazioni, a cui sono molto vicine, e le offerte delle amministrazioni che i loro dirigenti corteggiano o da cui provengono, queste ONG di servizi si iscrivono “di buon grado” in una relazione clientelare con i poteri pubblici o con i padrinati privati più o meno contigui al regime. Allo stesso tempo si presentano come “spazi di costruzione di notabilati sociali e politici”, strumenti a disposizione dell’ordine statuale e della società (ibid., 2003), strumenti popolari di auto-organizzazione cittadina, di sopravvivenza e in certi casi di pressione sulle autorità, strumenti para-ufficiali di controllo e di pacificazione sociale. Il loro radicamento locale si innerva nei gruppi di solidarietà primaria (famiglie, comunità, quartieri…), che vi collezionano vantaggi e diverse risorse. [3].
Anche i rapporti delle Nazioni Unite valorizzano il ruolo essenziale e vitale delle ONG del mondo arabo, come rete estrema di sicurezza sociale. E la tendenza è particolarmente vera quando lo Stato è assente o inesistente, come nel Libano della guerra civile o in Palestina.
Secondo Asef Bayat, in qualche modo, sono riuscite ad andare oltre il loro ruolo di primo soccorso, per ottenere, attraverso la mobilitazione, dei diritti legittimi. “Le condizioni socio-economiche in Medio Oriente sembrano più favorevoli ad una forma particolare di attivismo”, che sfida diversamente l’ordine costituito e la repressione: “un movimento popolare che io qualifico come ‘invasione silenziosa dell’ordinario’”. Allusione alle azioni dirette individuali o di piccoli gruppi, che mirano ad assicurarsi – di soppiatto – il necessario di base: terra, alloggio, consumi collettivi urbani, posti di lavoro informali e opportunità di attività commerciali (Bayat, 2000)…
 
La seconda grande categoria di ONG – le ONG di patrocinio – si distingue in modo deciso dal profilo tipico delle ONG di servizio.  
Meno radicate socialmente, meno rappresentative, le ONG di patrocinio adottano un atteggiamento più rivendicativo, critico, politico, anche se, in alcune configurazioni, possono talvolta essere utilizzate dalle autorità arabe come un alibi democratico agli occhi del mondo occidentale [4]. Piccole strutture, piccoli bilanci che dipendono da finanziatori stranieri “pro democrazia”, animate quasi sempre da universitari, da appartenenti a classi medie superiori, alle élite urbane, queste ONG conoscono diverse fortune.
Chiaramente più esposti degli attivisti delle ONG di servizio, i loro militanti, spesso volontari, subiscono regolarmente le conseguenze (intimidazioni, censura, imprigionamenti, sparizioni…) del loro impegno e delle loro denunce, del loro lavoro di sensibilizzazione e di pressione in favore del rispetto dei diritti umani.   
Tuttavia, in certi paesi come l’Algeria, dove si è assistito ad alcuni slittamenti politico-semantici associati alla crescita di movimenti islamisti, questa “società civile di difesa” ha potuto divenire anche “il simbolo dello schieramento dei partigiani proclamati del pluralismo e della democrazia sui regimi, e dell’esclusione del movimento islamista, accusato precisamente di minacciare la società civile” (Camau, 2002).
Altrove, queste ONG hanno dato luogo ad episodi di campagne a livello nazionale, dimostrando la loro capacità di mobilitazione e la loro forza di intervento sull’opinione pubblica. Più spesso relativamente a questioni di cultura politica, delle libertà civili, di emancipazione dei costumi, in altri momenti si sono attivamente impegnate per rivendicazioni nazionaliste, contro le privatizzazioni, contro l’imperialismo, o negli spazi dei forum altermondialisti nazionali o regionali, punti di incontro particolari di personaggi della sinistra intelletuale e politica araba, dei leader dei movimenti islamisti terzo-mondialisti, delle ONG progressiste…
 
Etnie e confessioni minoritarie di fronte agli Stati-nazione arabo-musulmani
 
Un’altra chiave di lettura cruciale per comprendere le tensioni e i conflitti sociali, politici e culturali in atto nel mondo arabo risiede in “questioni minoritarie” (di natura etnica, tribale, linguistica, religiosa…) fortemente presenti all’interno delle frontiere o alle frontiere degli spazi territoriali, eredità della storia della regione e della colonizzazione. 
La sostituzione avvenuta nel corso del  20esimo secolo dello Stato multinazionale e multiconfessionale del periodo plurisecolare ottomano con lo Stato nazionale, centralizzato, di imitazione europea, non ha cancellato le antiche strutture sociali. Al contrario, nella maggior parte degli Stati post-coloniali “modernizzatori”, il peso della segmentazione “comunitaria” e delle gerarchie tradizionali ha giocato un ruolo determinante nell’edificazione dei sistemi clientelari.
La piramide dei vassallaggi e di fedeltà ai clan nell’Iraq di Saddam Hussein ne ha costituito un esempio lampante.
Su scala regionale, l’Iraq appare come il caso più complesso di grovigli confessionali, tribali, etnici e linguistici, mentre il Maghreb tende piuttosto ad essere caratterizzato da una diversità etnico-linguistica, ma da una forte unità religiosa; invece, l’Egitto, il Vicino-Oriente e la penisola arabica da una forte coerenza linguistica ma da una grande diversità religiosa (Mutin, 2009).
 
Sono sufficienti alcuni esempi specifici per indicare in che modo queste realtà identitarie occupano una posizione centrale nei conflitti civili e sociali della regione.
Allora, per il Maghreb, se la questione berbera è particolarmente importante in Marocco (quasi il 40 % dei  Marocchini sono berberofoni), diventa estremamente delicata in Algeria (20 %), dove i Kabili hanno dovuto già da tempo sollevarsi contro il discorso egemonico dell’arabismo. Dalla “primavera berbera” (1980) alla “primavera nera berbera” (2001), le proteste autonomiste, accompagnate a sommosse e rivolte represse nel sangue, solo occasionalmente occupano il centro della scena e articolano rivendicazioni alle volte di ordine culturale (solo nel 2002 il berbero, il tamazight, è stato riconosciuto come idioma nazionale), a volte sociale (disoccupazione diffusa, mancanza di abitazioni), e politico (corruzione, favoritismi amministrativi).
Dall’altra sponda del Mediterraneo, il Libano è un mosaico di comunità, quasi una ventina di confessioni all’interno di un micro-Stato di una superficie tre volte inferiore di quella del Belgio, dominato nel corso della sua storia da invasori e da influenze straniere: Turchi, Francesi, Israeliani, Siriani, Statunitensi, Iraniani… Se la ripartizione delle comunità cristiane (maronite, greco-ortodosse, greco-cattoliche, armene…) e musulmane (sunnite, sciite, druse…), come pure delle loro organizzazioni e movimenti rispettivi, non obbedisce più sempre a localizzazioni geografiche precise, la separazione socio-economica fra le comunità resta assai significativa e sovradetermina il destino più o meno conflittuale delle strutture politiche conseguenti.  
Ai confini di quattro Stati antagonisti – la Turchia, l’Iran e per il mondo arabo l’Iraq e la Siria  –, la minoranza curda (30 milioni di persone!) è priva di uno Stato.
Non arabi, ma in maggioranza musulmani sunniti, i Curdi dell’Iraq sono quelli che paradossalmente hanno registrato i progressi politici più rilevanti in termini di autonomia nel corso del 20.esimo secolo, eppure sono coloro che sono stati oggetto della più brutale repressione.
Fra il 1974 e il 1991, 200.000 Curdi sono stati massacrati dai militari del Baath iracheno, e 4.600 loro villaggi sono stati rasi al suolo. A questo riguardo, gli Arabi sciiti del sud dell’Iraq, vittime anch’essi della brutale repressione del regime di Saddam Hussein, non hanno molto da essere invidiati.
Perciò, l’Iraq attuale sotto tutela degli Stati Uniti, presieduto dal 2005 da uno dei due leader storici avversari del Kurdistan iracheno (Jabal Talabani), non presenta dammeno una catastrofe umanitaria e un’aberrazione politica. Definitivamente lacerato, sotto influenza esterna, caotico, questo Iraq ha effettivamente sotterrato il precedente regime e rovesciato i rapporti di forze interne, ma ha fatto avanzare la causa della sicurezza delle forniture di petrolio per l’Occidente più che la causa dell’emancipazione dei popoli della regione.
E anche se la regione del Kurdistan iracheno appare “vincente” – benché beneficiante di una prosperità in buona sostanza fittizia e circostanziale –, il consolidarsi geopolitico dello statu quoterritoriale lascia irrisolta la questione curda, nel suo insieme.
 
Conclusione
 
Precisamente come qui analizzato, ciascuna delle linee di frattura che attraversano il mondo arabo affonda le sue radici nella storia della regione, nelle colonizzazioni e negli interventi stranieri, di cui la regione è stata ed è sempre l’obiettivo, e nelle caratteristiche fisiche e geologiche di quest’area, che si adagia su due continenti. Culturali, socio-economici, politici, i fattori di contrapposizione sono legioni.
E se esiste un fattore poco discusso in questo editoriale, in quanto “esterno” agli Stati arabi, che è stato ampiamente utilizzato nei paesi del Maghreb e del Medio Oriente, non solamente per mobilitare la solidarietà pan-araba – senza distinzione alcuna fra repubbliche e monarchie –, ma anche per mascherare, zittire, neutralizzare, strumentalizzare le contestazioni interne, per rinsaldare le pubbliche opinioni contro un comune nemico, questo è il conflitto israelo-palestinese. Conflitto – occupazione e colonizzazione – inevitabilmente ed assolutamente condizionante la strutturazione specifica dei protagonisti della società palestinese (Fenaux, 2009).
L’accesso ineguale alle risorse naturali costituisce un’altra linea di frattura abissale del mondo arabo. Questa frattura crea distinzione fra i paesi, le regioni e i gruppi sociali ricchi di petrolio, acqua e terre arabili, e tutti coloro che non ne possono fruire in modo insopportabile. Al di là della questione di un futuro problematico per le rimesse petrolifere, la penuria d’acqua e l’esplodere delle carenze e delle dipendenze di risorse alimentari [5] accentuano senza limiti tensioni sociali crescenti e le ondate di rivolte urbane, che non più sporadicamente mettono in causa “l’alto costo della vita”. Come riusciranno ad affrontare tutto questo i regimi al potere – di cui la longevità accumulata ha conseguito ormai primati assoluti nel mondo?  Le tendenze attuali – un approccio sicuritario delle questioni sociali e politiche, reso più intenso in nome della “guerra contro il terrorismo”, sotto tutela straniera, – non lasciano sperare nulla di buono.
Esclusa la repressione o l’inquadramento, i movimenti sociali potrebbero rendersi autonomi e conquistare una loro centralità. L’effervescenza dei cittadini, a partire dal basso, a volte sovversivi nei confronti delle élite pubbliche e private, già rimescola le carte della “convivenza” tra gruppi sociali alla ricerca di diritti e le autorità tutte tese a mantenere salda la loro stabilità (Bozzo e Luizard, 2009). L’unità nella diversità delle comunità dovrà passare attraverso il riconoscimento delle differenze, l’uguaglianza delle condizioni e la condivisione del potere, per sfuggire alle condizioni di isolazionismo identitario mortale.    
Certi osservatori insistono sull’esistenza di un “post-islamismo” all’opera all’interno di questi movimenti che, in rottura con il dottrinario esclusivismo religioso e i movimenti reazionari, coniugano l’Islam con la democrazia, valorizzano “ i diritti piuttosto che gli obblighi, il pluralismo piuttosto che l’autorità di uno solo, la storicità piuttosto che dogmi cristallizzati, l’avvenire piuttosto che il passato” (Bayat, 2007).
Profetico, Hicham Ben Abdallah El Alaoui annuncia in Le Monde diplomatique la nascita di un “terzo nazionalismo”, che “va oltre il nazionalismo post-coloniale tradizionale, fossilizzato nei vecchi regimi autoritari” e il nazionalismo islamista conservatore, che si appoggia su un assolutismo religioso.
Siamo in presenza di un “nazionalismo di altra natura, secolarista ma che rivendica la sua identità araba e pan-islamica, fiero di mescolarsi su un piano di parità con le culture e gli idiomi del resto del mondo. […] Incide profondamente sull’immaginario di una grande parte della nostra gioventù, si riflette nei nuovi mezzi di comunicazione, nelle reti che collegano le diaspore ai loro paesi di origine, e nelle forme laiche di cultura e di linguaggio che consentono tutto questo. […] Condanna l’autoritarismo locale e la corruzione, aspira alla costituzione della democrazia, respinge con fermezza qualsiasi intervento militare straniero, difende con fierezza l’identità araba ed islamica, esalta il modernismo intellettuale e la diversità culturale” (2009).
Dunque, un nazionalismo estraneo al nazionalismo di suo padre e a quello degli imam?
Ben Abdallah modera, invitando a “diffidare di un ottimismo ingannevole”…
 
Bibliografia
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Note
[1] Figura storica del nazionalismo arabo e del protagonismo terzo-mondista, Gamal Abdel Nasser ha guidato l’Egitto dal 1954 alla sua morte nel 1970.
[2] Il Baath – partito socialista della “rinascita” (pan)araba – è stato fondato in Siria negli anni’40. Al potere in Siria dal 1963 ai giorni nostri. Al potere in Iraq nel 1963, e dal 1968 al 2003.
[3] “La società civile appare a questo riguardo come una risorsa dei regimi e dei loro sistemi di alleanze e di opposizioni a geometria variabile, a seconda delle congiunture. Nella misura in cui si tratterà di stabilire  un compromesso con l’“attivismo” o di reprimerlo, di praticare la politica del bastone o della carota, la società civile sarà “presente” come arma o come esca […]. La “presenza” sarà incarnata da individui o da gruppi cooptati, che si autoproclamano rappresentanti della società civile, divenuti parti interessate ai “compromessi con esclusione” (Camau, 2002).
[4] “La società civile contribuirebbe a conferire loro una maggiore ‘civiltà’ attraverso una sorta di capillarità controllata e senza rischi di irruzione di una alternativa politica coercitiva” (Camau, 2002).
[5] I paesi arabi (5 % della popolazione mondiale) sono pronti ad assorbire da soli il 20% delle esportazioni mondiali di prodotti alimentari (Mutin, 2009). Principali fornitori del mondo arabo: Stati Uniti, Canada e l’Unione Europea.
 

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