Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 1 Settembre 2011
The Palestine Chronicle
08.08.2011
08.08.2011
Ho fatto visita a Muhammad circa sessanta volte. Ma è solo ora che cominciamo a parlarci veramente.
Ho incontrato Muhammad per la prima volta sette anni fa. E’ successo in una delle mie lunghe camminate di fine settimana. Mi è venuto incontro, puntando verso l’uliveto e presentandomi al lungo drago grigio che si stava avvicinando alla sua casa. Al momento non sapeva se il muro sarebbe passato a est, facendolo rientrare in Gerusalemme con tutti i relativi vantaggi pratici, o se si sarebbe spinto a ovest, chiudendolo definitivamente fuori dalla città. Era una lotteria con un biglietto vincente e uno perdente. Ma non poteva nemmeno scegliere il suo biglietto: altri decidevano del suo futuro. Poi ha parlato del drago che si stava avvicinando, il drago morto che divorava ogni cosa, e che presto avrebbe divorato lui.

Per un lungo periodo di tempo si siamo incontrati più volte la settimana. Ci siamo seduti sotto il portico, quando il drago passava e si sdraiava pesantemente di fronte a casa sua. Il drago che ha chiuso fuori la luce, il che sta a significare che il sole tramonta già alle tre del pomeriggio, facendo scomparire la vista sulla città vecchia. Per lui vuol dire che tutto moriva, progetti, sogni e un futuro possibile. “Fino a poco tempo fa ero qualcuno,” ripete. Lo dice con gli occhi pesanti e tristi. Avevo già pensato di andarmene, avevo concluso la visita e volevo ritornare a Gerusalemme, in serata sarei andato all’American Colony. Ma sono rimasto e ho cominciato ad ascoltare una persona che non sentiva più di essere qualcuno.
“Mats, non sai davvero niente di me,” dice. “Ti ho appena dato un pezzo del puzzle, forse l’unico rimasto. Tutti gli altri mi sono stati portati via. Non sono sicuro che tu possa davvero capirmi, proprio come io non posso capire te. L’ho percepito quando ti ho portato a giro nel giardino”, spiega Muhammad. “Ti ho fatto vedere tutte le verdure, i pomodori, le zucche….Ti ho mostrato che non ha mai portato a nulla, che sono seccate prima ancora che diventassero alte un centimetro. Ti ho spiegato che era perché non le potevo annaffiare. Ma Mats, non me ne hai mai domandato il motivo, e mi vergognavo di dirti che abbiamo l’acqua solo due volte la settimana. L'anno scorso avevamo sempre l’acqua, ora ne abbiamo solo per spegnere la sete, cucinare e fare il bucato.”
Ed è ora, dopo sette anni che lo conosco, che ha bisogno di dirmelo. Che fossi improvvisamente tornato a sedere sul suo logoro sofà lo rendeva in parte contento, ma anche triste. Ha detto che “ero la personificazione dei suoi sogni più intimi.” Sogni che per lui erano stupendi, ma impossibili. Nota tutta la libertà che ho; la stessa che aveva anche lui, fino a poco tempo fa. Questa libertà gli era apparsa anche naturale e ovvia; dice di “non averne neppure provato gratitudine”.
Muhammad mi racconta di aver avuto un cavallo bianco fino a poco tempo fa. “L’ho avuto, dice, quando noi, che stavamo ad Abu Dis, avevamo diritto a tutte le terre tra Abu Dis e il Mar Morto, a nord, a sud e a ovest. Tu, Mats, hai un’Audi, io ho avuto un cavallo bianco. Poteva trovarsi a parecchi chilometri di distanza, era del tutto libero, ma mi seguiva sempre con gli occhi. A ogni minimo rumore o movimento tornava indietro di corsa. Tutti sapevano che quello era il cavallo di Muhammad. In un modo o nell’altro lui seguiva me e io seguivo lui. Entrambi eravamo liberi.”
Entra il vecchio padre di Muhammad. Di solito se ne stava sdraiato sul letto a guardare la televisione. Quando, sette anni fa, l’ho visto per la prima volta, era seduto in giardino appoggiato a una sedia, a guardia di alcune pecore. Dietro di lui, il muro che veniva eretto da lavoratori palestinesi si avvicinava rapidamente. Allora ho visto un uomo dal corpo stanco, con abiti consumati e le gambe storte. Pensai di aver capito. Immaginai che fosse un pastore. Rendeva molto bene quell’idea.
Ora scopro che, nel 1940, faceva parte dell’esercito giordano. Si trovava a Gerusalemme, nella parte giordana, quando i terroristi israeliani hanno ucciso Bernadotte. Racconta, per la prima volta e in modo particolareggiato, com’è successo. Ascolto e non so cosa credere. Quando, dopo quella sera, ho letto dell’assassinio di Folke Bernadotte, la maggior parte di quello che mi aveva detto quel vecchio prende significato. Poi comincia a parlare sull’essere liberi. Prima di essere intrappolato dietro il muro di Abu Dis e dopo aver lasciato l’esercito giordano si era guadagnato da vivere acquistando animali nello Yemen, in Giordania e in Siria. Era sempre in viaggio e ritornava con le bestie che vendeva nei mercati a giro per la Palestina. Avevo avuto dei pregiudizi nei suoi confronti, come su quasi tutto ciò che riguardava la potenza occupante e l’occupato.
Muhammad aveva avuto un cavallo bianco, ma era stato più libero di quello. Si era guadagnato da vivere costruendo case. Il suo sapere profondo stava tutto nelle sue mani. Aveva costruito una fitta rete di contatti in Giordania, in Israele e in Palestina. Ora, sia le mani che la rete di contatti sono inutilizzabili. Dice che vorrebbe mostrarmi tutte le case che ha costruito a Haifa, a Tel Aviv e a Gerusalemme.
Vorrebbe mostrarmi tutto ciò di cui è orgoglioso, la sua esperienza. “Ma Mats, non posso. Non ti posso neppure far vedere quello che ho fatto. Non posso portati da chi mi è grato per ciò che ho costruito. Non ho più alcun diritto, non sono in grado di far fruttare neppure ciò che posseggo. Forse, la cosa più faticosa è il non poter star dietro ai miei 102 olivi. Bene, posso accudirne due. Li puoi vedere dalla finestra. Gli altri cento sono a pochi chilometri dal posto di blocco tra Abu Dis e Betlemme. Ma sono troppo vicini a una colonia israeliana. L’ultima volta che ho cercato di raccogliere le olive è stato otto anni fa. Sono stato allontanato come un cane. Hanno detto che ero un pericolo per la sicurezza. Hanno rubato la nostra terra e costruito una colonia. I miei alberi sono appena fuori della colonia. Ogni anno producevano 3.000 kg di olive. Ora qualcun altro le sta raccogliendo, a me non resta nulla. Hanno rubato quello che, da secoli, apparteneva alla mia famiglia. E’ così vicino...”.
Ho lavorato al Consolato svedese per due anni. Ogni settimana incontravo Muhammad. Ma ho dovuto trascurarlo a lungo e ritornare, perché lui pensasse che era importante parlare dei suoi pensieri più intimi, della sua costante bramosia, del desiderio di libertà, di un cavallo bianco. Voleva che la nostra conversazione fosse densa di significato. Dice di non essere nessuno oggi, ma che una volta era stato qualcuno.
Dentro di me non posso più prescindere dalle domande. Chi sono? Sono qualcuno? Che faccio della mia libertà? Muhammad mi ha parlato di sé. Posso raccontargli di me? “Abbiamo perso la nostra terra, i nostri alberi, la nostra acqua, il nostro lavoro, la nostra libertà e anche i nostri sogni". Prima di lasciarlo, mi ha chiesto se quella sera avrei mangiato carne. “Credo di sì,” rispondo. "E’ da molto tempo che non ne mangio più”, rammenta Muhammad.
Mats Svensson, ex diplomatico svedese che ha lavorato con lo staff di SIDA, l’Agenziadi Cooperazione Svedese per lo Sviluppo Internazionale, attualmente segue l’occupazione della Palestina in corso.
Testo inglese in http://palestinechronicle.com/view_article_details.php?id=17031 - tradotto da Mariano Mingarelli
http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2913:fino-a-poco-tempo-fa-ero-qualcuno-ora-non-sono-nessuno&catid=41:reportage&Itemid=81
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