Manifestazione a Marrakech, 8 maggio 2011 |
Si è firmata HAB, la giornalista e attivista marocchina che in un articolo pubblicato dai siti di informazione Demain on-line e Lakomeha offerto un interessante angolo di lettura del binomio proteste-repressione, ormai braccio di ferro domenicale (e non solo) tra i manifestanti pro-democratici e il regime alawita. Una riflessione al femminile, che mette l’accento sul ruolo avuto dalle donne nei primi mesi di mobilitazioni e sulla progressiva scomparsa della componente femminile dai cortei del “20 febbraio”, dopo l’inizio della “linea dura” impressa dalle autorità. Le donne, ricorda HAB, sono ancora una volta le prime vittime della violenza, sono i bersagli privilegiati degli insulti e delle minacce dei poliziotti, che così facendo le costringono a rinchiudersi dietro alle pareti della vergogna. Le ragazze difficilmente raccontano le loro esperienze all’interno dei commissariati o quanto vissuto per strada, mentre la furia dei poliziotti si scatena su di loro. Quello lanciato dalla giovane giornalista è un grido di allarme e allo stesso tempo un appello ad “infrangere il muro del silenzio”.
Manifestazione a Casablanca, 3 aprile 2011 |
Intanto, le proteste nel paese continuano. Nuove manifestazioni sono state indette per domenica 5 giugno e la rabbia della gente comincia a crescere. Lo scorso giovedì è morto a Safi il giovane Kamal El Omari, attivista del movimento pestato a sangue dagli agenti domenica 29 maggio, durante un corteo. Kamal è il secondo shaid(martire) della “primavera marocchina”, dopo il decesso di Karim Chaib il 21 febbraio a Sefrou. Il Movimento 20 febbraio non sembra voler cedere di fronte alla morsa repressiva del regime, mentre è attesa per la prossima settimana la presentazione del nuovo testo costituzionale, voluto dal sovrano e redatto dalla commissione Mannouni.
Manifestazione a Rabat, 20 marzo 2011 |
La vergogna delle donne, alleata del regime
“Lurida puttana! Se ti ribecco un’altra volta, ti infilo questo manganello nel culo!”. Questa minaccia è stata lanciata da un funzionario di polizia all’indirizzo di una casablancaise di 13 anni, durante una manifestazione indetta dal “20 febbraio”. L’adolescente, traumatizzata, ha fatto passare alcuni giorni prima di parlarne a sua madre. Si tratta di un fenomeno isolato nel rapporto di forza che si è instaurato tra il regime e il popolo in strada? Della mancanza di controllo di un agente che soffre di disturbi psichici? Oppure di una patologia sociale al servizio del potere?
Una repressione mirata
Da qualche settimana ormai, i cani vengono liberati contro la folla e le testimonianze della repressione in atto si moltiplicano. Insulti, fratture, commozioni celebrali, minacce di morte, ogni giornata di manifestazione si chiude all’insegna di una morbosa contabilità. Questa contabilità comprende i racconti delle donne, giovani e meno giovani, che riferiscono gli insulti, le minacce e le percosse di cui sono divenute a pieno titolo un “bersaglio privilegiato”. I racconti resi pubblici, per quanto ancora rari, confermano la presenza di uno schema operativo attuato dalle forze di intervento con costante metodicità. Le manifestanti vengono tirate per i capelli, colpite ripetutamente al seno, minacciate di violenza sessuale con i manganelli, oltre agli insulti e alle offese. Al momento dei fermi e dei trasferimenti in commissariato, di nuovo minacce e intimidazioni ben specifiche. I funzionari di polizia possono contare infatti su una valida spalla: i colleghi che si occupano della custodia cautelare (incaricati di sorvegliare le persone in stato di fermo temporaneo, ndt). “Mi hanno chiuso in una stanza assieme ad un solo poliziotto, che mi ha chiesto con insistenza se ero vergine e se andavo a letto con gli altri attivisti. Quando mi hanno rilasciato, sono stata picchiata dai miei genitori”, riferiva una studentessa di Agadir qualche settimana fa.
Manifestazione a Sbata (Casablanca), 29 maggio 2011 |
La paura e la vergogna
Dal 20 febbraio, il solo cambiamento ottenuto e la sola forza che resta agli attivisti è l’aver scardinato la geografia della paura. La piazza marocchina ha innegabilmente preso fiducia e, incoraggiata dagli eventi tunisini ed egiziani, ha capito che nessuno, in nessun modo, potrà fermare la richiesta di una vera democrazia e di libertà. Di certo una bella vittoria! Insufficiente, ma molto incoraggiante.
Tuttavia, in questa lotta per i nostri diritti più fondamentali, per la riappropriazione delle nostre vite e del nostro diritto di scelta, rischiamo di perderci a metà strada un’intera parte della società. Le donne, comprese le ragazze più giovani, sono vittime di una repressione mirata che cerca di far leva su due pilastri fatti propri dalla cultura tradizionale marocchina: quello della paura e quello della vergogna. Tale vergogna, e il suo corollario di silenzi, sembra rendere invisibile l’oppressione patita dalle attiviste. Peggio ancora, trasforma l’oppressione in norma sociale a cui conformarsi e ne fa uno spregevole alleato del regime.
Niente più donne, ma ragazzini…
Ieri, un amico mi ha confidato che sarebbe meglio per me non scendere in strada la prossima domenica (5 giugno, ndt). “E’ terribile quanto ti sto dicendo, ma il livello raggiunto dalla violenza e dai maltrattamenti è inammissibile, ed è meglio che non ci siano donne. I poliziotti le umiliano e minacciano di violentarle!”. Non ho preso parte alla manifestazione di Sbata (Casablanca) domenica scorsa (29 maggio, ndt), ma ho guardato i filmati diffusi su internet. E’ vero, c’erano molte meno donne rispetto alle marce di marzo e aprile, dove la loro presenza era massiccia e ben visibile. Ed è vero che il dispositivo di repressione messo in atto era a dir poco impressionante. Tuttavia, in mezzo alla folla, ho visto un gran numero di ragazzini.
Le donne, dunque, da sempre vittime di violenze politiche, sociali ed economiche, dovrebbero restare in silenzio e chiudersi in casa perché un manipolo di degenerati le minaccia di tutte le umiliazioni possibili? Dopo aver alzato la voce per qualche settimana, per rivendicare libertà e giustizia sociale, dovrebbero fare marcia indietro e attendere giudiziosamente che gli uomini (compresi i bambini) vadano a fare il loro “lavoro da uomini”? Nessuno ha voglia di prendersi le manganellate, ancor meno di mettere la propria vita in pericolo…uomini o donne che siano.
Infrangere il muro del silenzio
Di certo, le donne hanno bisogno di essere rispettate, ma hanno ancor più bisogno di libertà. Non di una pseudo-libertà concessa dall’alto (il riferimento è al codice della moudawwana approvato nel 2004, ndt), costruita in modo artificiale nei gabinetti governativi o di Palazzo, ma di una libertà vera, frutto di una profonda transizione sociale, operata dalle stesse donne marocchine. Anche se non è possibile cambiare tutto in un solo colpo, anche se resta illusoria la possibilità di sbarazzarsi di secoli di cultura patriarcale in un battito di mani, è tempo oggi che le donne di questo paese infrangano il muro del silenzio. E’ giunto il tempo di denunciare le violenze subite e di puntare il dito contro i responsabili politici e di polizia che trasformano tali pratiche in sistema, in leggi e comportamenti non scritti.
Le donne non devono più vergognarsi di ciò di cui non sono responsabili. E’ il momento di prendere coscienza che gli insulti vincolano solamente coloro che li proferiscono. Tutt’al più ci rivelano – se ce ne fosse ancora bisogno – una patologia del loro spirito. La vergogna, non potendo sperare che si rivolti sui nostri persecutori, non dovrà più minare la nostra sete di libertà.
Sbata (Casablanca), 29 maggio 2011 |
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