venerdì 17 giugno 2011

Nuda vita, Una pecora clandestina a Lampedusa

Annamaria Rivera 



C’era anche una pecora con i diciannove tunisini, dei quali sei donne e un bambino, sbarcati a Lampedusa in un’alba di pochi giorni fa. Non si sa se il mite animale fosse stato imbarcato per nutrire il piccolo durante la traversata, come dapprima si è scritto, o solo per ricordo del paese lontano, come avrebbero dichiarato i tunisini. C’è una terza ipotesi che nessuno ha avanzato: che la pecora fosse destinata ad essere immolata nella festa di Eid al-adha, la festa del sacrificio, appunto.
 
Qualunque sia la verità, v’è qualcosa di evangelico in quest’immagine della piccola comunità viaggiante per le acque del Mediterraneo con un bimbo e una pecora. È una parabola vivente che mette a nudo l’assurdità delle norme che pretendono di confinare gli esseri umani nei recinti nazionali. Quando sono le ragioni primarie dell’esistenza a spingere verso qualche altrove per cercare la salvezza o un destino migliore, oppure “solo” per praticare la libertà, anche di movimento, conquistata con una rivoluzione.
 

 
Una volta giunti a Lampedusa, i dodici tunisini, le sei tunisine e il bimbo sono diventati tutti nuda vita, come la pecora: esposti all’arbitrio di poteri che hanno deciso preventivamente che essi non hanno il diritto di avere dei diritti. Conosciamo la sorte dei tunisini umani: sono arrivati dopo il 5 aprile, quindi sono clandestini passibili di espulsione, preceduta da un periodo variabile di prigionia, arbitri e vessazioni. Dopo la sosta nell’isola, in quella bolgia che chiamano centro di accoglienza, saranno deportati in qualche lager difeso da grate e filo spinato in attesa del rimpatrio. Forse tenteranno la fuga, protesteranno per i maltrattamenti, assaggeranno i manganelli e i lacrimogeni delle forze dell’ordine.
 
La pecora extracomunitaria, invece, è stata abbattuta subito, senza alcuna esitazione: a niente sono valse le proteste degli animalisti. Le cronache riferiscono che “il protocollo prevede in questi casi l’abbattimento dell’animale dopo le analisi di rito e la disinfestazione”. Si noti il linguaggio: non è diverso da quello che si usa per gli umani, clandestini come la pecora: “Gli extracomunitari di nazionalità tunisina…in attesa delle decisioni dell’autorità…dopo le verifiche di rito…”.
 
Non so se avesse un nome, la nostra pecora gentile, indotta a emigrare clandestinamente. Ora che ha raggiunto quell’altra dimensione in cui nessuno più è sacrificabile, né animali né umani, diamole un nome per onorarla: chiamiamola Karima, che in arabo vuol dire “generosa”. Il nome le si addice, che abbia davvero salvato col suo latte la vita di un bimbo, che si sia prestata a farsi ricordo vivente del paese o, suo malgrado, capro espiatorio in senso proprio (così si chiama anche un personaggio del mio romanzo, Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto, che non è una pecora, ma è ugualmente tunisina: una parrucchiera tunisina altrettanto mite e generosa).
 
Karima è l’emblema della gerarchia del dominio: siamo tutti sacrificabili dal momento in cui si è deciso che gli animali sono sacrificabili; siamo tutti mercificabili e riducibili a quantità irrilevante dal momento in cui si è deciso che tali sono i non umani. Nella gerarchia del dominio lei occupava l’ultimo gradino. La piccola comunità tunisina giunta dal mare, che a sua volta ha esercitato dominio sulla pecora, ora è essa stessa esposta all’arbitrio del potere.
 
Karima è l’emblema non solo della generosità e della mitezza, ma anche del vivente inerme e sacrificabile: che il sacrificio si compia nella forma della messa a morte o in quella dell’espulsione, cioè dell’annientamento di un progetto di riscatto. Dovremmo far qualcosa perché a quel bambino, approdato avventurosamente sulle sponde della speranza, sia concesso, insieme ai suoi, di cercare su queste sponde un futuro migliore.




Per concessione di Micromega
Fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/06/16/annmaria-rivera-una-pecora-clandestina-a-lampedusa/
Data dell'articolo originale: 16/06/2011
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=5086 

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