sabato 18 giugno 2011

Abbandonati nel Mediterraneo

13 giugno 2011 11.53


Fiona Ehlers e Clemens Höges, Der Spiegel, Germania

Il 25 marzo una barca con a bordo 72 persone è partita dalla Libia diretta a Lampedusa. I migranti sono stati avvistati da un elicottero militare. Ma nessuno li ha soccorsi

È stato un breve attimo di felicità in un viaggio che sarebbe terminato con la morte di molti passeggeri. Hanno alzato un bambino in alto, hanno esultato e si sono abbracciati. Erano così emozionati che per poco la barca non si è rovesciata. Un elicottero stava volteggiando sopra le loro teste. È quello che raccontano tre dei nove superstiti di quella drammatica traversata mentre se ne stanno seduti nel campo profughi di Shousha, al confine tra la Tunisia e la Libia. I tre naufraghi dicono di essere riusciti a distinguere la parola army sulla fusoliera del velivolo.

A due mesi dal loro tentativo di fuggire dalla Libia, sanno ancora scrivere quella parola su un foglio di carta, e riescono a tracciare un disegno dettagliato di un elicottero. Dicono di esserne sicuri. “Perché dovremmo mentire?”, domanda Elias Kadi, 23 anni, un etiope magro che parla correntemente l’arabo e abbastanza bene l’inglese. Stando al racconto dei sopravvissuti, l’elicottero è sceso di quota, ha volteggiato a una decina di metri dalla barca e ha calato in mare bottiglie d’acqua con etichette scritte in italiano e alcuni pacchi di biscotti.

I profughi erano salpati due giorni prima da una località della costa libica non lontano da Tripoli, a bordo di un peschereccio senza nome diretto verso l’Europa. La loro meta era l’isola di Lampedusa, che si trova a circa 290 chilometri dalle coste libiche. Ma a un certo punto hanno perso l’orientamento. Vedendo l’elicottero, hanno pensato di essere quasi in salvo. Il capitano, un ghaneano altissimo sulla trentina, ha spento il motore. Quando hanno alzato lo sguardo verso l’elicottero, hanno visto che i soldati erano armati e che uno di loro stava scattando delle fotografie. Poi l’uomo ha fatto un cenno con la mano, come a dire: i soccorsi sono in arrivo, restate dove siete. O almeno è così che il suo gesto è stato interpretato dai migranti. Subito dopo l’elicottero si è girato ed è volato via. Lo hanno guardato allontanarsi fino a quando è diventato un puntino nell’orizzonte.

Poco dopo il capitano ha fatto qualcosa che un marinaio esperto non farebbe mai: ha gettato in mare la bussola e il telefono satellitare. Aveva paura che i soccorritori lo arrestassero con l’accusa di traffico di esseri umani. Elias si è stupito, ma non ha fatto niente per fermarlo. Ha pensato: “Ormai la tecnologia non ci serve più a niente. Dobbiamo solo aspettare che una nave venga a rimorchiarci. Saranno qui tra un’ora o due”. Ma i soccorsi non sono mai arrivati. Il dramma successivo è solo un episodio di una tragedia molto più grande. Il racconto di questi sopravvissuti è la storia di una sofferenza immensa alle porte della fortezza Europa, il diario di bordo di un viaggio mortale.

Da quando sono cominciate le rivolte nel Nordafrica, circa 34mila profughi hanno raggiunto l’Europa. Secondo i dati delle Nazioni Unite, sono già 14mila i rifugiati che sono passati dalla Libia all’Italia o a Malta, e che nessuno vuole. Nell’arco di qualche settimana questo esodo ha cambiato l’Europa più di quanto si potesse pensare. Gli italiani si sono limitati a rilasciare ai profughi un visto temporaneo per raggiungere gli altri paesi europei, e questo ha portato i francesi a chiudere le frontiere. Nel frattempo la Danimarca vuole reintrodurre i controlli ai confini e i politici dell’Unione discutono di come limitare la libertà di movimento. I governi europei si preoccupano dei rifugiati del mondo arabo, ma temono che, se loro riusciranno a raggiungere l’Europa, centinaia di migliaia di africani seguiranno l’esempio. I passeggeri della barca senza nome venivano infatti dall’Etiopia, dalla Nigeria, dall’Eritrea, dal Ghana e dal Sudan.

Senza scelta
I tre sopravvissuti intervistati dallo Spiegel – Elias, Mohammed Ibrahim, entrambi di 23 anni, e Kabbadi Dadi, di 19 – aspettavano da anni l’occasione per lasciare l’Africa. Elias, figlio di un mandriano, è arrivato a Tripoli quattro anni fa, un anno prima di Mohammed e Kabbadi. Appartengono tutti e tre all’etnia oromo, un gruppo perseguitato dell’Etiopia meridionale. Elias racconta che uno dei suoi otto fratelli è rimasto ucciso in uno scontro con le milizie governative, mentre un altro è in prigione. Elias se n’è andato di casa senza neanche salutare i familiari. Ha lavato auto a Khartoum, la capitale del Sudan, finché non ha messo da parte i soldi che servivano per il viaggio attraverso il Sahara, a bordo di un camion affollato.

A fine marzo, quando l’occidente ha cominciato a bombardare Tripoli, i profughi hanno pensato che fosse il momento giusto. Le spiagge non erano più pattugliate come negli anni precedenti, quando l’Italia pagava generosamente il leader libico Muammar Gheddafi per impedire ai migranti africani di mettere piede sulle sponde europee. Elias era consapevole dei rischi, ma dice: “Non avevo altra scelta. Dovevo scegliere tra il carcere e le torture in Etiopia e la libertà in Europa”. Come spesso succede tra i rifugiati che fuggono dal Nordafrica, qualcuno conosceva un sudanese che conosceva un libico che una notte li ha chiamati per dirgli di andare sulla spiaggia. Erano le tre del mattino del 25 marzo. La luna era coperta dalle nuvole, ma si vedevano le luci di Tripoli e si sentiva il rumore dei bombardamenti.

Il libico ha chiesto 800 dollari per ogni passeggero. L’imbarcazione scoperta, un peschereccio celeste di dieci metri per tre, ondeggiava vicino alla riva. I profughi erano cinquanta. Si sono arrotolati i pantaloni e hanno guadato l’acqua bassa. Era la prima volta che Elias saliva su una barca. Il libico ha fatto caricare sul peschereccio alcune taniche di benzina azzurre, una bottiglia d’acqua per ogni passeggero e una scorta di datteri e biscotti. Qualche minuto prima di salpare, altri ventidue africani si sono arrampicati sulla barca. “Se qualcuno pensa che siamo in troppi, scenda subito a terra”, ha detto il libico, “ma a nessuno saranno rimborsati i soldi”. Poi la barca è partita con il suo carico di cristiani e musulmani: cinquanta uomini e ventidue tra donne e bambini. La visibilità era buona, il mare calmo e l’imbarcazione solcava rapida le onde.

Il viaggio da Tripoli a Lampedusa è relativamente breve: circa trecento chilometri. I passeggeri hanno formato una specie di catena umana, ognuno seduto tra le gambe allargate della persona davanti. Tutti indossavano vari strati di vestiti, e le donne si erano avvolte la testa in una sciarpa. Sapevano che di notte avrebbe fatto freddo. “All’inizio eravamo di buonumore”, ricorda Elias. “Ci scattavamo fotografie con il cellulare”. Avrebbero dovuto avvistare la terraferma entro la fine del secondo giorno, il 26 marzo. Il ghanese aveva detto che sarebbero arrivati a Lampedusa in diciotto ore, ma ormai ne erano passate trenta. I passeggeri hanno cominciato a innervosirsi. Quando l’elicottero si è avvicinato, verso le dieci del mattino, tutti hanno fatto cenni con le mani, alzando le taniche vuote e urlando: “Aiuto, aiuto!”.

L’elicottero ha calato alcune provviste fino alla barca, poi ha invertito la rotta e se n’è andato. I rifugiati hanno trascorso le tre ore successive in attesa di una nave che li soccorresse. Ma non è mai arrivata, e la disperazione è aumentata. Un uomo di nome Petrus, un cristiano che pregava in continuazione, ha chiamato un numero italiano e ha parlato con un sacerdote di sua conoscenza. “Cosa dobbiamo fare?”, ha gridato. Padre Moissie Zerai è un prete eritreo che aiuta gli africani che hanno bisogno di soccorso in mare.

Quel giorno ha detto a Petrus che li avrebbe fatti richiamare da qualcuno per individuare la posizione della barca. Il sacerdote è seduto nel refettorio del Collegio etiopico, alle spalle della basilica di San Pietro, in Vaticano. Racconta che quel sabato di marzo ha subito avvertito la guardia costiera italiana, come fa sempre quando un gruppo di migranti si trova in difficoltà durante la traversata verso l’Italia. Mezz’ora dopo, dice, ha chiamato il quartier generale della Nato a Napoli. Vittorio Maggiore, un maggiore della guardia costiera italiana di stanza a Roma, conferma la telefonata di Zerai. L’ufficiale spiega che l’imbarcazione è stata localizzata circa sessanta miglia nautiche a nord della costa libica e che i suoi sottoposti hanno avvertito le autorità di Malta.

Bere acqua di mare
Quella zona del Mediterraneo è stata suddivisa in diverse aree di ricerca e soccorso. Lo stato maltese è responsabile di una zona che si estende a sud e a est di Lampedusa. Quando qualcuno si trova in difficoltà in questa regione, i maltesi sono tenuti a inviare sul posto elicotteri o navi. Le autorità maltesi dicono che nei loro registri non c’è traccia di telefonate dall’Italia. Inoltre, dicono che il barcone stava andando alla deriva nei pressi del confine tra la zona di salvataggio maltese e quella libica. Se la barca era a sud della zona di responsabilità maltese, sarebbe toccato ai libici inviare i soccorsi. Ma in Libia c’è la guerra. E per Gheddafi i profughi, vivi o morti, sono diventati armi nel conflitto con l’occidente.

Ma da dove veniva l’elicottero? Sugli elicotteri della marina statunitense è scritto “navy”, non “army”, la parola che i rifugiati dicono di aver letto. Gli elicotteri della marina britannica sono contrassegnati dalla scritta “Royal navy”, quelli francesi dalla parola “Marine” e quelli italiani da “Marina”. Finora nessuno stato ha detto di sapere qualcosa di quell’elicottero. L’odissea dei settantadue rifugiati è cominciata dopo che il velivolo si è allontanato e il capitano ha gettato il telefono satellitare in mare. Per due o tre ore la barca ha viaggiato nella direzione in cui l’elicottero era scomparso, poi è finito il carburante. A quel punto i profughi si sono trovati accalcati e in balìa delle onde, che hanno ricominciato a spingere l’imbarcazione verso la Libia.

Quella sera hanno svuotato due tubetti di dentifricio, lo hanno mescolato con acqua di mare, hanno intinto le dita nella poltiglia e l’hanno leccata. Le provviste erano finite, e anche l’acqua potabile. Il terzo giorno Marjam, una delle donne più giovani, ha cominciato a lamentarsi dicendo che stava morendo di sete. Gli uomini urinavano in una bottiglia di plastica e bevevano la loro urina. Ma Marjam non poteva farlo, non davanti agli uomini, così ha raccolto l’acqua di mare e l’ha mandata giù. Ma il sale sottrae liquidi alle cellule, e bevendo solo acqua salata si finisce per disidratarsi dall’interno: una morte orribile.

Verso la tempesta
Ormai il mare non era più calmo. Un banco di nubi scure si stava avvicinando, il vento si era alzato e di notte la temperatura è scesa a dieci gradi. Il primo profugo è morto all’alba del settimo giorno. Si chiamava Ondassir ed era un ragazzo magro con il viso coperto da una rada peluria. Elias, uno dei sopravvissuti, dice: “Non riusciva a sopportare che ci stessimo allontanando dalle luci. Lo mandava fuori di testa”. A quanto pare, all’improvviso Ondassir è balzato in piedi e ha urlato che sarebbe montato in groppa al suo asino e sarebbe andato a comprare un po’ d’acqua per i bambini. Ha detto agli altri di non preoccuparsi perché sarebbe tornato presto, poi è saltato fuori dalla barca.

Quella notte sono morte anche tre donne: la ragazza che aveva bevuto acqua di mare, una signora di nome Rachel e Jamila, una giovane madre eritrea. Il figlioletto di due anni si trascinava gemendo intorno al suo corpo esanime, mentre gli uomini cercavano di distrarlo. I passeggeri hanno aspettato due giorni. Poi, quando sono stati certi che le donne non respiravano più, hanno fatto scivolare i loro corpi in mare. Non ci sono stati rituali o preghiere di gruppo: ognuno ha invocato il suo dio in silenzio. Poco dopo Yussuf, il bambino che avevano sollevato in aria all’arrivo dell’elicottero, è morto. Il figlio di Jamila ha esalato l’ultimo respiro qualche ora più tardi. Il capitano ghaneano è morto l’undicesimo giorno.

Il pomeriggio del dodicesimo giorno i profughi hanno avvistato una nave, forse una portaerei della Nato. “Era chiara e lunga”, ricorda Elias, “e più grande di qualunque altra nave avessi mai visto”. Dando fondo alle loro ultime energie, i passeggeri hanno sventolato le sciarpe delle donne morte. A bordo della nave si vedevano uomini in uniforme e qualcosa di simile a flash di macchine fotografiche. I profughi erano convinti che la loro odissea fosse finalmente terminata. Ma la nave ha proseguito lentamente lungo la sua rotta, fino a scomparire. Eremias, un eritreo, saltava impazzito da un lato all’altro della barca, urlando e strappandosi i vestiti. Poi ha preso la rincorsa e si è lanciato in mare.

In questo momento le acque della Libia sono solcate da un’intera flotta della Nato. Sia le navi militari sia quelle civili sono tenute a fare qualsiasi cosa in loro potere per soccorrere un’imbarcazione in difficoltà. È la norma sancita dalla convenzione internazionale Solas (Safety of life at sea), adottata in seguito al naufragio del Titanic. Le violazioni della convenzione Solas sono punite come reati penali. Ma chi ha violato la legge in questo caso? La Nato, che nega ogni responsabilità, ha esaminato i diari di bordo delle navi sottoposte alla sua autorità. Secondo un suo portavoce, non sono stati trovati accenni alla barca dei rifugiati. In tutto questo periodo, però, la nave francese Charles de Gaulle non è stata sotto il comando della Nato. Ma il governo di Parigi sostiene che la sua portaerei non si è mai trovata a meno di 160 miglia nautiche dalle coste della Libia.

In galera
Il Mediterraneo pullula di pescherecci. Molti pescano calamari usando vasi di coccio legati insieme e calati sui fondali. I pescatori restano spesso in mare per lunghi periodi di tempo. È possibile che i militari abbiano scambiato la barca gremita di profughi per una di queste imbarcazioni? Secondo Judith Sunderland, che indaga per Human rights watch, è possibile che i militari abbiano visto i profughi ma senza capire che stavano andando alla deriva.
Il 9 aprile il vento soffiava forte. Sulla barca c’erano ancora dieci uomini e una donna. Nelle prime ore del mattino si sono incagliati su uno scoglio. Si è aperta una falla nello scafo e la barca si è ribaltata.

La risacca ha trascinato a riva tutti i passeggeri tranne la donna, che si chiamava Rahima ed è annegata poco prima di raggiungere la terraferma. I tre superstiti del campo profughi di Shousha non ricordano bene cosa sia successo dopo, tranne che erano stesi sulla spiaggia a pancia in giù. Poi hanno sentito delle voci che parlavano in arabo: erano soldati libici. Il vento e la corrente avevano trasportato la barca nei pressi di Zlitan, una città a metà strada tra Misurata e Tripoli, a 140 chilometri dal punto da cui erano salpati due settimane prima. “Mettetevi a sedere e non fiatate!”. Poi li hanno portati in un carcere vicino a Tripoli e li hanno rinchiusi in una cella senza finestre. Un uomo di nome Tariq è morto due giorni dopo: a quel punto i superstiti erano nove.

L’acqua di mare aveva corroso la pelle delle braccia e delle gambe di Elias, che ora erano ricoperte da uno strato di cute chiaro e arrossato che gli causava un prurito terribile. Un detenuto del Bangladesh ha prestato a Elias il suo cellulare. Lui ha chiamato un parente a Tripoli, che li ha fatti liberare pagando cento dollari a testa e li ha portati dal vescovo della città. Qui hanno finalmente ricevuto cure mediche e vestiti. Quando i bombardamenti su Tripoli hanno cominciato a intensificarsi, i superstiti si sono separati. A quanto pare, tre di loro si sono nuovamente imbarcati per raggiungere l’Europa. Elias, invece, è fuggito in Tunisia insieme a Mohammed e a Kabbadi. Sono nel campo di Shousha da più di una settimana, ma si sentono ancora mancare la terra sotto i piedi. Elias pesa 45 chili e ha il volto segnato da rughe profonde.

I funzionari dell’agenzia Onu per i rifugiati gli fanno visita ogni giorno. Gli fanno domande. Vogliono sapere cosa ha visto e come erano fatti di preciso la nave e l’elicottero. Vogliono capire se in occidente c’è qualcuno da incolpare, qualcuno che sia anche solo parzialmente responsabile della morte di 63 persone. “Che senso ha tutto questo?”, domanda Elias. “La verità non cambierebbe niente. L’Europa non ci vuole. Invece di ucciderci direttamente, ci lasciate morire piano, senza che nessuno se ne accorga, in mare aperto”. Di notte il giovane dorme accanto a Mohammed e a Kabbadi: i tre uomini stanno vicini proprio come sulla barca. Elias dice che non riesce a dormire per più di qualche ora a causa degli incubi. Quando si sveglia di colpo, resta lì steso a fissare il cielo del deserto.

Traduzione di Floriana Pagano

Internazionale, numero 901, 10 giugno 2011

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