giovedì 7 aprile 2011

JULIANO MER KHAMIS


6 aprile 2011
Juliano Mer Khamis è stato assassinato. Questo assassinio costringe tutti e tutte noi ad aprire gli occhi su una realtà dolorosa e assai complicata. Quella stessa realtà che i giovani palestinesi che hanno dato vita al movimento del 15 marzo scorso vogliono rimettere in discussione. Juliano, come quei giovani, sapeva benissimo contro cosa combattere. Noi lo sappiamo? Noi sapremo essere accanto a quei ragazzi e a quelle ragazze del campo profughi di Jenin che hanno da oggi un compito enorme: continuare a camminare                                                                                                                                                               su quella strada iniziata a percorrere con Juliano Mer Khamis?
Queste sono le domande che ci pone davanti brutalmente l’assassinio insensato di Juliano Mer Khamis.Juliano rappresentava la sfida più ardua: essere un ebreo-palestinese e non solo per le sue origini. La sua rabbia ci raccontava la sua sfida quotidiana, la necessità di dover combattere contro molti avversari, riconoscendoli uno per uno.
Quando sua madre, Arna Mer, iniziò la sua attività nel campo profughi di Jenin alla fine degli anni ottanta, era in armonia con il momento più alto della lotta di liberazione del popolo palestinese. A quell’epoca, ancora, si potrebbe dire, il nemico era in sostanza uno e ben riconoscibile: la violenza indiscriminata di uno Stato, Israele, contro un popolo inerme. Quella lotta la pose nella condizione di portare fino in fondo l’elaborazione della sua contraddizione, prismatica di un’esperienza individuale e collettiva. Arna sfidava, con la sua determinazione, l’ipocrisia dell’ «unica democrazia del Medioriente», si pose al centro del conflitto. Portò in quella zona difficile da abitare il figlio, il quale però subito dopo la morte della madre si trovò a vivere al centro anche dell’altra contraddizione. Essere ebreo-palestinese è negazione concreta della pretesa sionista. Essere ebreo-palestinese è la negazione di ogni pretesa integralista. È una sintesi.
Continuare a percorrere la strada indicatagli dalla madre non è stata per Juliano Mer Khamis una scelta né obbligata, né automatica. Una volta fatta la sua scelta, però, Juliano Mer Khamis ha scelto contemporaneamente di voler trasformare la sintesi delle due negazioni che egli stesso rappresentava.

Chi ha scelto di ucciderlo in nome di uno o dell’altro integralismo, religioso e nazionalistico insieme, ha commesso un atto suicidiario. Juliano Mer Khamis, ora dicono alcuni, era una bandiera, un simbolo. Non siamo d’accordo: era un uomo che costruiva la sua vita, privata e pubblica, senza rinunciare a nessuna delle sue «due parti» e lottando accanitamente contro gli aspetti deteriori di entrambe. La sua determinazione nel voler ricostruire quel teatro terapeutico e formativo fondato dalla madre con altre madri, e distrutto dall’esercito israeliano nel 2002, amava ripetere, era la sua vendetta. La sua vendetta contro tutto ciò che deliberatamente ha fatto fare passi indietro da gigante alla lotta palestinese e contemporaneamente ha richiuso brutalmente le cesure che si erano aperte nella società israeliana. Juliano Mer Khamis non affrontava le sue sfide da solo, non ne aveva per altro nessuna intenzione. Per questo la figura del «simbolo», per come generalmente è inteso da noi, gli era estranea, non gli apparteneva da vivo e non appartiene alla sua memoria. I ragazzi e soprattutto le ragazze che insieme a lui sfidavano vecchi e nuovi avversari, politici, culturali e sociali rappresentano oggi al meglio la trasformazione della sintesi negativa.
Oggi che le giovani generazioni nel mondo arabo e musulmano sono protagoniste di un cambiamento sicuramente epocale, nessuno, neanche uno o più volgari assassini, possono riportare indietro la ruota della storia.
Certamente, senza Juliano Mer Khamis sarà più difficile, ma la strada intrapresa è l’unica percorribile.
Certo, senza Juliano la loro sfida si decuplica, si decuplica la fatica, ma è una sfida che nessuno può evitare di raccogliere.
A noi da quest’altra parte del Mare fra le terre si impone uno sforzo ulteriore di comprensione della vera posta in gioco. Per decenni ci siamo fatti molti sconti, abbiamo intrapreso comode scorciatoie. Sconti e scorciatoie impossibili per coloro che ogni giorno subiscono apartheid, guerra, spoliazione, umiliazione, paura e morte.
Il suon assassinio è certamente un danno gravissimo portato al popolo palestinese e a tutti e tutte coloro che dall’altra parte, in Israele, cercano di opporsi al grande scivolamento a destra della società israeliana. Oggi, dopo l’assassinio di Juliano Mer Khamis, tutto questo è amplificato in modo esponenziale.
Preferiremmo il silenzio al dover cercare parole, ma questa ricerca è parte della nostra solidarietà e, dove ci riusciamo, di empatia, non con i morti, ma con i vivi. Se falliremo ancora, come abbiamo clamorosamente fallito in questi anni, allora si, faremo bene a tacere.

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